Fran Lebowitz: una vita a New York – recensione della docu-serie di Martin Scorsese
Dall'8 gennaio su Netflix, Fran Lebowitz: una vita a New York è la nuova imperdibile docu-serie di Martin Scorsese. Con la risata del regista e i commenti della scrittrice riscopriamo la Grande Mela, sempre con cinismo e grande ironia
Quando Martin Scorsese osserva, lo spettatore si innamora. È il principio del suo cinema, ma soprattutto dei suoi titoli meno considerati: i documentari. Da Bob Dylan ai Rolling Stones, Scorsese ricerca da sempre i volti e le influenze che tessono la sua cultura. Una di queste è proprio Fran Lebowitz, cara amica del regista, apparsa anche in The Wolf of Wall Street. In Italia, forse, non la conosciamo. Ma se sei americano non puoi sbagliarti: è la cinica critica newyorkese che ha una parola per tutto e tutti. Se l’opinionismo avesse una fonte, sarebbe nella cenere delle sigarette spente con decisione dalla Lebowitz.
Non è la prima volta che il regista di Taxi Driver la circuisce; già nel 2010, per conto di HBO, aveva diretto Public Speaking (La parola a Fran Lebowitz). Ora, con una decade di distanza (e incrementato cinismo), Fran Lebowitz: una vita a New York, prendendosi il tempo di una serie da sette episodi a trenta minuti l’uno, torna per le strade della Grande Mela in cerca della città perduta, ritrovata, ricordata. Si parla di tutto, tranne che di quello di cui vorremmo parlare con la Lebowitz. Arte? Letteratura? Secondarie, anzi: fondamentali e perciò indiscutibili. Come parlare del respiro, roba da corsi di Yoga (che per altro la Lebowitz odia come poche altre cose). Si parla invece di ciò che importa: metro chiuse per la puzza dei passeggeri, librerie comuniste sulla cima di vecchissimi edifici, affitti, party, incontri di pugilato (e che incontri! Mohamed Ali contro George Foreman: “un evento culturale davvero meraviglioso: sfortunatamente c’era una rissa in mezzo”) e ovviamente New York. Lei, la città, i palazzi e un po’ meno le persone, rappresentano tutto ciò che conta. Pretend it’s a City è difatti il titolo originale della serie, oltre che una delle prime uscite della scrittrice. Fingete sia una città, dove la gente vive e ha impegni. Una speranza vana per una città paradossale, ancora più bella se osservata nei viavai antecedente la pandemia. Come dice la Lebowitz: chissà come dev’essere fare lo psicologo in una città dove il primo problema sono i rumori.
Fran Lebowitz: una vita a New York, la risata di Scorsese e altri capolavori
Scorsese e Lebowitz rincorrono nomi di librerie, ristoranti, palazzi. Il regista partecipa attivamente, persino con quella risata che di anno in anno si fa sempre più sonora. Scorsese se la ride, e noi con lui. A volte anche solo per lui. Quando la risata è migliore della battuta è comunque comicità, e il duo Lebowitz-Scorsese mettono in piedi un signor cabaret. Per un attimo ci sentiamo al Copa, ma siamo in soggiorno. Ed è questa forse la magia più grande di Fran Lebowitz: una vita a New York, portarci là fuori, ma con un voice-over d’eccezione. Fran Lebowitz diventa per la città quel che David Attenborough è per la natura.
Ma seguire Fran Lebowitz è un labirinto a regole inverse: bisogna evitare la via d’uscita, non si sa come si è entrati ma ci siamo per restare. Una novità per chi ascolta ma nulla di nuovo per lei, da sempre diretta, caustica, convincente suo malgrado. Perché alla sua età non vuole influenzare nessuno: a che serve? Esprime opinioni perché “non ho nessun potere”, afferma. Racconta infastidita di chi la blocca per congratularsi delle sue presunte battaglie sociali. Spesso però fa capolino l’ego, ed è bello anche vederla tradire una rettitudine ascetica per un mortale senso di soddisfazione.
Le ore trascorse con la Lebowitz garantiscono un ritratto pressoché totale, della donna, dell’artista, della città. I tre volti che Scorsese scandaglia tentennando solo nella paura di interrompere l’ennesimo giudizio perentorio sul mondo, andando lì dove l’età porta ai cliché di sempre, per stravolgerli. Non ha un computer, non ha un cellulare, non ha nemmeno una macchina da scrivere. Non le interessa del cambiamento climatico, non in senso stretto almeno. Sono questioni dei giovani, che però (e qui la differenza) non commenta, perché “ognuno capisce solo le persone della propria epoca”. Anche se riconosce di aver vissuto tempi straordinari, ora preclusi a quelli che chiama millennials e che probabilmente sono gli zoomers, di cui ignora, con ragione, l’etichetta.
Ricorda Woody Allen, soprattutto alla luce dell’autobiografia uscita a marzo 2020. Anche se, nonostante le affinità intellettuali, e i lamenti comuni, Fran Lebowitz non sceglierebbe mai una partita di baseball a un libro. Ma tanto non importa comunque, perché anche su questo ha le idee chiare: le cattive ci uccideranno? Sì, ma non saranno le buone a salvarci. Sipario, risata di Scorsese.