Gangs of London: recensione della serie TV Sky
Azione, adrenalina e sangue a volontà nella serie firmata da Gareth Evans, Xavier Gens e Corin Hardy. Dal 6 luglio su Sky Atlantic.
C’è del marcio a Londra verrebbe da dire dopo la visione di Gangs of London, con la capitale britannica che per l’occasione cambia volto per trasformarsi nel “ventre” infetto di una metropoli dove regna il caos, la violenza e la malavita più o meno organizzata, capace di allungare i propri tentacoli dai bassifondi sino ai piani alti dei grattacieli delle multinazionali. Quella che fa da cornice alla nuova serie Sky, in onda dal 6 luglio alle 21.15 su Sky Atlantic e NOW TV, è una Londra inedita, inghiottita da una cloaca marcia, solo in apparenza ben vestita e dalla faccia pulita. Dietro le scintillanti vetrate dei palazzi del distretto finanziario e nei vicoli più malfamati della periferia si consumano i capitoli di un’epopea criminale cruda, nerissima e fortemente adrenalinica, incentrata sulla lotta per lo scettro del potere dopo l’omicidio di colui che da vent’anni lo deteneva. L’assassinio del patriarca è la miccia che innesca una reazione a catena che manda in frantumi un’alleanza flebile di bande che si trovano in ogni parte del mondo e portano avanti traffici e contrabbandi.
Gangs of London: una clonazione action con variazione in salsa british di Gomorra
A dirla così sembrerebbe di rivivere una sorta di déjà-vu con quanto andato in scena in Gomorra – La serie, quando nel finale della seconda stagione Don Pietro Savastano muore per mano di Ciro l’Immortale in un epilogo in stile Il padrino. Da quel momento la “pace” viene meno e si scatena una lotta per la supremazia, nel quale Genny Savastano prova a fare valere la sua discendenza. Lo stesso che in Gangs of London proverà a fare Sean (Joe Cole), il figlio maggiore di Wallace Finn (Colm Meaney), per mettere le mani sullo scettro, mostrare gli artigli a chi se ne vuole impossessare e per vendicare il padre. Peccato che per portare a termine il compito dovrà vedersela con un’orda di uomini e donne spietati, sanguinari e accecati dal potere, oltre che con il solito agente sotto copertura che tenta di distruggere l’organizzazione dall’interno.
In effetti c’è più di un’analogia con la celebrata serie nostrana, che di fatto restituisce agli occhi del pubblico una clonazione con variazione in salsa british. Analogie, queste, che hanno a che vedere con le dinamiche narrative e drammaturgiche, delle quali il fruitore dovrà prendere atto nel corso dei nove episodi (dalla durata disomogenea e sproporzionata che va dai 90 e passa minuti del pilot a una media che varia dai 50 ai 60 per i restanti otto) che vanno a comporre la serie ideata da Gareth Evans e Matt Flanner, approdata in Italia dopo il clamoroso successo ottenuto in madre patria (ha fatto segnare il secondo miglior esordio per una produzione originale Sky in UK dopo Chernobyl, con ben 2,23 milioni di spettatori nei primi sette giorni di programmazione).
Gangs of London: corpose pennellate di rosso sangue gettate sulle tinte nere e scure del crime
Trattasi, dunque, di un intreccio fatale di esistenze e affari illeciti, che nel suo dipanarsi genera una guerra intestina destinata a implodere nel vero senso della parola, lasciando dietro di sé una scia infinita di sangue, un numero incalcolabile di arti spezzati, di corpi mutilati e di cadaveri senza sepoltura. Non che questo mancasse in Gomorra, ma c’è da dire che il tasso di violenza e di crudezza alla quale si assiste in Gangs of London è praticamente quintuplicato, con l’asticella che supera abbondantemente la norma tollerabile e alla quale ci ha abituato ad esempio un Quentin Tarantino o Nicholas Winding Refn nelle loro “allegre” e pittoriche mattanze. Qui, invece, si spinge a tavoletta il piede sull’acceleratore, gettando corpose pennellate di rosso sulle tinte nere e scure che solitamente avvolgono i prodotti appartenenti al filone crime e del gangster movie. Sta in questo innalzamento volutamente fuori controllo, spinto all’eccesso di una messa in scena al limite che divide il pulp dal gore (come in quel cinema made in Oriente targato Takashi Miike, che fa capo allo yakuza movie), il primo ingrediente chiave alla base della serie.
In Gangs of London a contare sono più i fatti che le parole
Gangs of London fa dell’esplosione della violenza nelle sue diverse manifestazioni, soprattutto fisiche e poi psicologiche, il leit motiv di una storia nella quale a contare sono i fatti prima delle parole, le azioni efferate prime dello scambio pacifico di idee. Ci vuole pochissimo, infatti, a rompere i già sottili equilibri e le fragili alleanze. Da questo punto di vista, la serie è molto meno cervellotica, escatologica e intricata di quanto si potrebbe pensare, con la componente action che a conti fatti ha un peso rilevante e dominante nell’economia della timeline complessiva. È sull’azione cinetica, balistica e pirotecnica che gli autori puntano tutte le carte a disposizione. Non a caso dietro la macchina da presa nelle vesti di showrunner c’è il già citato Gareth Evans, il re indiscusso dell’action-fighting, affiancato da due colleghi quanto lui assidui frequentatori del cinema di genere come Xavier Gens e Corin Hardy. Scelte, queste, che proiettano la messa in quadro in una direzione ben precisa, meno autoriale e introspettiva.
Le spettacolari scene d’azione mettono in secondo piano il racconto
Si assiste così a un puntuale appuntamento con scene marziali e d’azione di altissima qualità e tasso di spettacolarità, che finiscono con il mettere in secondo piano il racconto, le dinamiche narrative e le one lines dei personaggi, quest’ultimi però impreziositi da performance degne di nota, dove spicca quella di Michelle Fairley nei panni della madre di Sean (una sorta di incrocio genetico tra “Imma” Savastano e la Crystal di Solo Dio perdona. In tal senso, la scrittura cerca continui rilanci per mantenersi a galla, spesso perdendosi in digressioni che gonfiano in maniera eccessiva e futile la durata di alcuni episodi. Per stratificare il plot si tende sempre a dilatare e ampliare le spettro del racconto, quando al contrario una costruzione più chirurgica e meno dispersiva garantirebbe una maggiore scorrevolezza e chiarezza nella lettura degli eventi. È questo il tallone d’Achille di Gangs of London.
Viene da sé che il meglio dell’operazione va ricercata nella confezione, nell’eclettica regia e nelle continue dosi di adrenalina che Evans & Co. sparano sullo schermo con un ritmo frenetico e un notevole campionario di soluzioni balistiche e marziali, a cominciare dall’uno contro tutti di Elliot Finch (Sope Dirisu) nel pub in stile The Raid del primo episodio all’infinita sparatoria nel cottage di campagna tra i mercenari e i fuggitivi in scena nel quinto. Entrambe portano la firma del cineasta gallese, che così facendo illustra ai colleghi di set le linee guida e le regole d’ingaggio. Istruzioni e stile senza fronzoli ai quali l’inglese Hardy e il francese Gens si adeguano senza problemi, realizzando nei rispettivi episodi (dal 2° al 4° e l’epilogo per il primo e dal 6° all’8°) scene di buona fattura: dalla spedizione punitiva del 2° al corpo a corpo a colpi d’ascia nel bagno dell’appartamento in ristrutturazione del 3°, passando per la sparatoria del cecchino nel 4° e il massacro dei mafiosi nigeriani nella stanza d’albergo nell’8°. Non c’è dubbio che il meglio di Gangs of London vada ricercato proprio nel modo in cui la storia viene mostrata piuttosto che nel racconto stesso. Della serie chi si accontenta gode.