Ghost Wars – Stagione 1: recensione premiere
Il pilot di Ghost Wars, pur seguendo i canoni classici del genere horror, non riesce a catturare pienamente lo spettatore.
Spiriti, non morti. Morte e Vita. Roman (Avan Jogia) vive a metà tra tutto questo, in bilico tra energie e forze, e ci vive in mezzo, immerso tra realtà e illusione. Vede cose che gli altri non possono vedere, capisce ciò che per gli altri è inconcepibile, cerca invano di spiegare ai suoi concittadini che qualcosa di strano sta accadendo in Alaska, a Saint Martin. Tutto cambia quando la cittadina viene presa d’assalto da un’orda di misteriose forze e l’unico che può salvare la comunità è Roman, dotato di poteri psichici repressi.
Questa è la base da cui parte e si muove Ghost Wars, la serie tv ideata da Simon Barry (Continuum), distribuita dall’emittente SyFy nell’ottobre 2017 e dal 2 marzo 2018 disponibile su Netflix. Barry realizza un omaggio al classico horror psicologico, mescolando scienza, umanismo, religione e paranormale; e questi tredici episodi diventano mezzo per mostrare vite (quella di questa comunità in cui vivono invasi e invasori) attraverso cui si ha l’occasione di narrare la politica di oggi (quella trumpiana in cui si alzano muri e si addita il diverso; è interessante che a interpretare il diverso sia Jogia, attore canadese, figlio di un inglese figlio di immigrati indiani). Ghost Wars intreccia action (incidente dell’autobus, scontri tra umani e spiriti) e riflessione (le parole lungimiranti del Reverendo), religione (“La Bibbia ha spiriti, serpenti, angeli […] è un po’ paranormale. Non siamo tenuti a comprenderli, li accettiamo”) e paranormale (le apparizioni maligne e quelle di Maggie), norma (la comunità) e “a-norma” (Roman), pregiudizi e ribaltamento degli stessi in un mix che non sempre è convincente. Ad intrecciarsi sono anche lo stile (veloce e sincopato per le scene action, lento, forse anche troppo, per le scene dialogiche) e la scrittura che seguono le varie anime di questo show.
Ghost Wars: la serie tv Netflix è un omaggio al classico horror psicologico
Nel personaggio del protagonista confluiscono da una parte quel maledetto dono che lo rende mostruoso agli occhi degli altri, dall’altra la piacevolezza e l’armonia dei tratti stranieri di Jogia, dicotomia (dentro-fuori), espressione della straordinarietà di Roman che però alla fine non riesce a esplicitarsi in tutte le sue sfumature restando di superficie. Egli è diverso dagli altri, lo comprendiamo dalla sua partenza e da quel “Non so se mi dispiace vederlo partire” detto dalla sindaca della città e dall’epiteto mostro, affibbiatogli da un concittadino. È proprio questo uno dei temi su cui si costruisce il primo episodio di Ghost Wars, il racconto dell’emarginazione dolorosa di chi è stato messo da parte (i ricordi della fanciullezza di Roman), della paura del diverso e dell’odio verso chi non è conforme alla cosiddetta norma (“E’ la vostra paura a parlare, cercate un colpevole”). A poco a poco, di sequenza in sequenza emerge il motivo per cui Roman è tanto temuto, il suo dono, quel suo spaventoso potere che gli permette di guardare oltre, ed emerge anche il motivo per cui se ne vuole andare, essere anonimo. L’anonimato per uno che è da sempre non accettato perché concretizzazione di tutte le paure sotterranee, inconsce, è un antidoto necessario per sottrarsi a una comunità non sempre benevola; ma per Roman non è questa la via d’uscita che la Sorte gli ha riservato.
Il racconto di un male senza confini e senza catene: la città brucia in Ghost Wars
Terremoti, incidenti, sparizioni. Incendi, corpi in fiamme o che si sottraggono ai nostri occhi; e Roman è sempre lì e per la comunità è quasi colpevole catalizzatore di quegli eventi, spaventosi e mortali, perché unico a sopravvivere come un titano moderno, mentre attorto c’è solo Morte. La Morte è elemento compenetrante della serie – il Reverendo Dan Carpenter (Vincent d’Onofrio, il Palla di Lardo di Full Metal Jacket, che sostiene da solo l’intero episodio), uno dei personaggi più importanti ne parla, celebra “funerali” fuori e dentro la chiesa – ma lo è anche la religione che si contamina di paranormale, forza distorcente e disturbante che acquista di dignità proprio anche grazie all’apertura del Reverendo.
È interessante che gli unici due personaggi che si schierano dalla parte del protagonista, almeno all’inizio, siano la rappresentazione del potere temporale e spirituale: Carpenter, uomo in crisi che inciampa, usa un linguaggio forte e talvolta poco ortodosso, umano, troppo umano, e lo sceriffo. Se, usando le parole dell’uomo di Chiesa, la Signora con la Falce è come una porta che lega due mondi, Roman è colui che sta sul limen e vede le rifrazioni di ciò che c’è al di là (gli spiriti). Lo grida, lo dice e lo ridice ma è come Cassadra che annuncia la verità ma non viene creduto, la sua sacra “mania” (furore profetico) è considerata pazzia o potere di un’anima maledetta.
Mentre attorno succede ciò che è inspiegabile, le luci vanno a intermittenza, il vino trabocca dai bicchiere, insetti camminano sotto la pelle e poi fuoriescono dai corpi, ponti spariscono, Roman si fa paladino della sua città, della sua gente, della sua comunità, la stessa che lo ha allontanato, irriso, deriso. Il male dilaga, striscia, si insinua nella cittadina e il protagonista da diverso, maledetto, distante da tutti, diventa “salvatore”, unico e speciale (le parole di Maggie diventano parole dell’intera comunità). Tutto questo è prova che oltre il limite c’è qualcosa e che per sopravvivere l’uomo deve attingere alla religione utilizzando la fede, “categoria” che rende possibile ciò che confligge con la ragione.
Questa miscellanea di tematiche, di spinte centrifughe e centripete, non giova alla riuscita dell’episodio pilota che si muove sobbalzando come una molla, che risulta non a fuoco e che non cattura fino in fondo lo spettatore.