Gli ultimi zar: recensione della serie Netflix sui Romanov
Recensione della serie TV Gli ultimi zar, racconto a metà tra finzione e documentarismo sulla fine dei Romanov e della casa reale russa.
Il 17 luglio 1918, 101 anni fa, nella cosiddetta casa a destinazione speciale di Ekaterinburg dove erano stati deportati dopo lo scoppio della Rivoluzione, lo zar Nicola II di Russia (in verità, da poco ex zar), sua moglie, la zarina Alessandra (nata Alice d’Assia, nipote della regina Vittoria), le quattro figlie Olga, Tatiana, Marija e Anastasija, e l’unico figlio maschio Aleksej furono trucidati selvaggiamente dai loro carcerieri: la morte arrivò per ciascun membro di quella che era stata la famiglia imperiale russa in modo estremamente crudele e doloroso perché, per salvare i preziosi gioielli posseduti, ognuno di loro aveva nascosto dei cuscinetti sotto i vestiti, cuscinetti che ebbero l’effetto di rendere la penetrazione dei proiettili più difficoltosa e di dilatare, così, l’agonia.
Gli ultimi zar: serie Netflix sulla fine tragica dei Romanov e del mondo pre-sovietico
Gli ultimi zar, serie TV Netflix in sei puntate, ricostruisce la storia dal momento dell’incoronazione di Nicola, succeduto giovanissimo e assai malvolentieri al padre Alessandro III, fino alla sua abdicazione e alla tragica morte insieme alla famiglia per mano dei bolscevichi, senza dimenticare di approfondire la vicenda relativa al sospetto che Anastasija, la quarta figlia dello zar e della zarina, fosse in qualche modo sopravvissuta all’eccidio. Una donna, salvata da un tentativo di suicido a Berlino nel 1920, sosteneva, infatti, di essere la granduchessa: una malformazione ai piedi e alcuni ricordi dettagliati risalenti all’infanzia sembrarono in un primo momento suffragare affermazioni che sono, poi, risultate deliranti, frutto di un quadro clinico compromesso da una grave forma di psicosi. Nessun membro della famiglia riuscì a salvarsi. Quei Romanov che avevano governato la Russia nei suoi anni più febbrili scomparvero tutti insieme in una notte sanguinosa d’estate e con loro un intero mondo.
Gli ultimi zar: la storia seducente dei Romanov ridotta a manuale scolastico
La materia che questa serie TV, peraltro tecnicamente pregevole, affronta è di per sé ricca e stupefacente: l’azione drammaturgica, di fronte alla Storia che già di per sé è una storia, può esaltare o svilire il dettato degli eventi e, se lo svilisce, ciò può avvenire perché ne sente il peso o perché non è in grado di scegliere una strada, non ha coraggio di prendere una posizione autoriale. Già tutto è nella fonte, alla fonte. C’è uno zar, Nicola II, costretto a crescere tutto d’un colpo. Il padre muore improvvisamente, spiazzandolo e costringendolo ad assumere un potere di cui non ha voglia e per cui non è intimamente portato. La lezione autoritaria e autarchica impartitagli dal genitore si scontra con il suo temperamento docile e con lo spirito dei tempi, con i cambiamenti che già inesorabili stanno modificando il tessuto profondo di una nazione.
C’è un matrimonio contrastato che, comunque, viene celebrato per amore: Nicola sposa un’osteggiata principessa tedesca, l’apparentemente algida ma in verità nevratile Alice, poi divenuta zarina Alessandra. C’è la lunga attesa di un erede maschio che diventa ossessione soprattutto materna: dopo quattro figlie femmine, arriva finalmente Aleksej, come le sorelle bellissimo, biondo, gioviale. L’erede è, però, malato di emofilia, una malattia di cui la madre è portatrice sana. La paranoia si insinua nelle menti dei genitori e spiana la strada all’ascesa di Rasputin, santone semianalfabeta che, grazie alle sue capacità manipolatorie, conquista la zarina e, in poco tempo, riesce ad ottenere e a esercitare un’influenza enorme sulla famiglia imperiale, allontanando questa ultima sempre più sia dall’ambiente aristocratico (che la zarina, piena di fervore cristiano, disprezzava per i suoi eccessi mondani) sia dal popolo piegato dall’indigenza.
Gli ultimi zar è un prodotto ibrido, a metà fra fiction e documentario, che si autocastra per eccesso di didascalia
Gli autori de Gli ultimi zar avrebbero, così, potuto percorrere la strada dello studio dei caratteri: l’identità tormentata, divisa fra quella dell’autocrate e quella del padre e marito sensibile, di Nicola, l’estrema vulnerabilità psicologica della zarina Alessandra, i diversi temperamenti delle quattro giovani granduchesse, l’ambiguità dell’arrampicatore-stregone Rasputin sono tutti elementi estremamente seducenti dal punto di vista drammaturgico. C’è, poi, il nucleo ancestrale di ogni materiale tragico, la cecità: la fine della Russia imperiale è conseguenza di un atto di negazione, di una resistenza non solo ad accettare ma anche a vedere la realtà, a comprenderla, a interpretarla. Il potere è vero potere solo se riesce a cambiare, ad adattarsi, a mimetizzarsi, ad ammorbidirsi in superficie. Eppure, nonostante la materia di partenza, la serie fallisce proprio perché predilige la didascalia alla traduzione drammatica, proprio perché abdica a un necessario traghettamento di linguaggio.
La scelta, insensata, vagamente colpevole e senz’altro autocastrante, di mescolare fiction e non fiction, racconto scenico e inserto documentaristico – alla rappresentazione filmica s’alternano brani di documentario, interventi di studiosi che “spiegano” ciò che la scena mostra – rende Gli ultimi zar didascalico e frustrante: lo spettatore, trattato come uno scolaretto, vorrebbe appassionarsi ai personaggi, ai loro tormenti, ai loro errori ciclopici e senza ritorno, ma non può farlo perché le ragioni dello storico si sovrappongono continuamente a quelle della mediazione drammatica fino ad ammansire il suo story-telling, ad addomesticarne la complessità, a trasformare la storia di uomini e donne pieni d’insenature e fragilità in Storia rimasticata, aggiustata e canonizzata in senso manualistico. Gli ultimi Zar diviene così una sorta di Romanov per dummies e quello che, di questa serie, poteva essere e non è stato supera di gran lunga in risonanza quel che di fatto è: un prodotto indeciso, pavido, futile.