Gypsy: la recensione completa della serie TV Netflix con Naomi Watts
La serie TV Netflix - pur partendo da uno spunto torbido quanto interessante - resta sospesa nelle sue stesse premesse, non trovando una direzione narrativa sicura
Gypsy, la serie TV originale Netflix disponibile sulla piattaforma di streaming dal 30 giugno, presentava aspettative piuttosto alte: una protagonista dalla classe sopraffina come Naomi Watts, il sensuale protagonista dell’erotico Love di Gaspar Noé (Karl Glusman) e altri ottimi attori come Billy Crudup e la magnetica Sophie Cookson al servizio di una trama torbida sul tema del chi siamo e del chi invece vorremmo essere, vincolati ad una vita ordinaria e socialmente desiderabile da sovrastrutture che ci portiamo dietro come macigni fin dall’infanzia, periodo della vita peraltro non sempre vissuto brillantemente.
“Vittima” di tale travaglio personale Jean (Naomi Watts), una psicoterapeuta cognitivo-comportamentale determinata – come il suo ruolo richiede – a far sì che i suoi pazienti abbandonino rapporti di dipendenza e trasgressioni malsane. Ma Jean per prima vive una scissione, inconciliabile con la sua immagine ufficiale di donna serenamente sposata e madre di una bambina (con disturbi dell’identità sessuale): è una donna che cova perennemente desideri profondi, spinta da una corrente interiore verso la libertà da schemi e legami, per inseguire impulsi e passioni, alla base di quell’inconscio che spaventosamente assomiglia molto alla sua vera identità.
Jean vive le storie dei propri pazienti tentando di tenere a bada le sue pulsioni e di non proiettare su chi le chiede aiuto le proprie insicurezze, pena la perdita di quel confine necessario al realizzarsi della psicoterapia. Quando però le cose cominciano a non andare per il verso giusto, il senso d’inadeguatezza investe profondamente la protagonista, spingendola ad attraversare il confine e andando a conoscere di persona i protagonisti di quanto riportato dai suoi pazienti durante le sedute. Per tale occasione, però, Jean non è più se stessa ma l’avventurosa giornalista single Diane Hart, una nuova identità che darà vita ad un gioco pericoloso di cui sarà molto difficile non perdere le redini.
Gypsy: Naomi Watts divisa tra trasgressione e controllo
Gypsy è a tutti gli effetti un dramma sulla trasgressione, che cerca ammirevolmente di andare ad analizzare il senso stesso di tale termine. Cosa significa trasgredire? Non comportarsi come i nostri affetti o l’ambiente sociale in cui viviamo richiede o tradire le aspettative di chi deve necessariamente starci più a cuore, noi stessi? Tante le domande sollevate dalla serie di Lisa Rubin, ma troppo poche le risposte, che vengono sostanzialmente strappate dalle mani di una sceneggiatura decisamente lacunosa (in numerosi episodi non accade praticamente nulla) e affidate al potere evocativo del brano dei Fleetwood Mac che ha ispirato la serie e le ha dato il titolo.
Gypsy si rivela dunque l’aggettivo che meglio descrive il cuore zingaro di una donna che non riesce a rinunciare alla propria libertà ma che ne rimane paradossalmente prigioniera, invischiata in un turbine di bugie e omissioni che finiranno per mettere in pericolo la sua vita professionale e privata, al fianco di un uomo consapevole di aver sposato una donna complicata ma troppo radicato “a ciò che è giusto” per ammetterlo a se stesso, lasciando che anche i suoi desideri più reconditi fluiscano liberamente.
Jean (il cui nome di fantasia Diane si rivela un chiaro omaggio a David Lynch e in particolare al personaggio stesso della Watts in Mulholland Drive) vive la sua doppia personalità spingendosi sempre più oltre, andando ad esplorare territori ignoti e per questo irresistibili, come la relazione omosessuale con la narcisista Sidney, ex fidanzata di un paziente che soffre di una dipendenza psicologica ma che Jean comincia a manipolare per tenere sotto controllo il suo rapporto illecito con la ragazza, o con la dolce ed insicura Rebecca, figlia di una madre opprimente che la psicoterapeuta finisce involontariamente per associare alla propria.
Nonostante la nebulosità del suo svolgimento, Gypsy riesce comunque a lanciare un importante messaggio, concentrato sull’opportunità o meno di vivere secondo le regole e di sapere a tutti i costi la verità sulle persone che ci circondano e che nascondono tutte inevitabilmente un segreto. Meglio forse far pace con se stessi e con le proprie ambiguità, per poi riuscire di conseguenza a stare meglio anche con gli altri.
Il finale di Gypsy, sospeso e poco chiaro come l’intera serie, prelude ad un seguito; la domanda è se la povertà di scrittura di cui tale prodotto è afflitto indichi o meno l’opportunità di proseguire. Ma tutto può essere e non è detto che una maggior attenzione alla sceneggiatura non possa riservare piacevoli sorprese, data l’innumerevole quantità di territori verso cui le vicende della protagonista potrebbero spingersi. Staremo a vedere.