I Hate Suzie: recensione della serie con Billie Piper
Una serie che esplora il rapporto tra vita pubblica e privata e il peso del successo. La storia di una donna che lotta per rimettere in sesto la sua vita.
La trentina passata già da un po’, la terra che scotta sotto i piedi ma Suzie Pickles, attrice televisiva con un promettente avvenire dietro le spalle da prodigio pop adolescenziale, in fondo in fondo pensa di avercela fatta. Come darle torto. L’orologio biologico ticchetta e la promessa di una parte niente male in una grossa produzione Disney è cosa bella assai e anche importante. Quasi decisiva. Arrivati a questo punto, c’è da chiedersi solo cosa possa andare storto.
Un mucchio di roba. Nel caso di Suzie, il destino si incarta su foto hackerate e parecchio piccantine che la inchiodano in atteggiamenti inequivocabili con un uomo che ovviamente non è il marito. Con questa incisiva premessa, sbrigata tra l’altro con apprezzabile rapidità, ha inizio il caos emotivo (e non solo) di I Hate Suzie. Serie Tv in otto episodi interpretata da Billie Piper e co-creata insieme a Lucy Prebble.
I Hate Suzie è disponibile su Sky Q e NOW a partire dal 3 luglio 2021.
I Hate Suzie: Lucy Prebble e Billie Piper si conoscono già da un po’, e sanno lavorare bene sull’atmosfera
In principio era Diario di una squillo per bene, serie in quattro stagioni (2007/2011) interpretata da Billie Piper che nella vita fa la cantante e l’attrice. E adattata, guarda caso, da Lucy Prebble che di questi tempi è anche nella writers’ room di Succession, la fortunatissima serie HBO in procinto di sbarcare un po’ dappertutto con l’attesa terza stagione.
Oggi c’è I Hate Suzie e forse il passato comune delle creatrici e l’alchimia degli istinti spiega qualcosa, buona parte magari, della facilità con cui la serie, almeno nei suoi primi tre episodi, riesce a definire le coordinate emotive/narrative del percorso della protagonista. Dalle stelle alle stalle nel più proverbiale e prevedibile dei capitomboli. Suzie assiste impotente (per lo meno all’inizio) allo sgretolarsi della vita pubblica e privata in conseguenza di un brutale imprevisto che mette in gioco il filo sottile che separa l’intimità dalla casa di vetro. Sullo sfondo, gli eccessi della cultura della popolarità e una femminilità sotto scrutinio perenne.
Il punto di partenza e d’arrivo è l’atmosfera. La sofisticatezza della messa in scena e la qualità della scrittura intervengono prima di tutto sull’umore, sul tono, sul registro della narrazione. Se il primo episodio è la classica radiografia di un trauma emotivo, da una gioia esasperata e un tantino nevrotica a uno stupore prima ovattato poi sempre più forte, il secondo e il terzo episodio incedono su territori allucinati e vagamente minacciosi. La scelta strutturale è limpida: I Hate Suzie scompone un trauma e lo esamina, un mattone dopo l’altro. Otto fasi, otto episodi.
I Hate Suzie: shock, paura e negazione
Primo episodio, Shock. Suzie non fa in tempo ad assaporare l’ebbrezza del trionfo professionale che una brutta tempesta si abbatte sulla sua casa, tra l’indignazione e la rabbia del marito Cob (Daniel Ings), i tentativi disperati della manager Naomi (Leila Farzad) di tenere in piedi la baracca e lo stupore del figlioletto Frank (Matthew Jordan-Caws). Secondo episodio, Negazione. Suzie si nasconde negli obblighi del lavoro e nell’abbraccio della droga per evitare di fare i conti con la realtà. Nel frattempo, il suo matrimonio va a rotoli. Terzo episodio, Paura. Suzie e Cob tentano di riallacciare i rapporti, viene chiarita l’identità dell’uomo misterioso delle foto mentre la donna esplora il senso di vulnerabilità di una vita “esposta”, materialmente e spiritualmente.
A dare coerenza all’insieme, perché l’evoluzione continua degli stati d’animo in assenza di mani solide al timone farebbe una serie sfilacciata e incongrua, è una sapienza in tre parti.
Si comincia con la presenza nervosa ed eclettica di Billie Piper, che muove la sua protagonista sui fili di un’interiorità scossa senza mai scadere nel caricaturale o nella tv urlata. Si prosegue e si finisce con la scrittura arguta di Lucy Prebble, ben servita dalla regia del bravo Georgi Banks-Davies, al comando in tutti e tre gli episodi, che mantiene un fondo di umorismo nero e malinconico. Fa di I Hate Suzie un prodotto omogeneo, e non concede alla situazione di cedere allo squallore.