I pazienti del dottor García: recensione della serie Netflix
Tratta dal romanzo di Almudena Grandes (1960-2021), I pazienti del dottor García è una serie dall’intreccio spesso, di grande valore narrativo e civile. Dentro c’è tutto: la spy story, il mélo, l’affresco storico di largo respiro. Da non perdere per nessun motivo (ma serve concentrazione).
Almudena Grandes è stata una delle voci della letteratura spagnola contemporanea più solide e importanti: morta di cancro alla fine di novembre del 2021, ha lasciato un’eredità letteraria, declinata in senso narrativo e solo sporadicamente drammaturgico, con cui non solo il suo Paese, ma tutto il mondo, si sta ancora confrontando e, ancor più, si confronterà nei prossimi decenni. Applaudiamo con ammirazione la scelta di Netflix di distribuire l’adattamento in dieci episodi – densi, densissimi: astenersi se non si è disposti alla concentrazione – di uno dei suoi romanzi più riusciti, I pazienti del dottor García (2017), edito da noi, come tutti gli altri libri della compianta autrice madrilena, da Guanda.
I pazienti del dottor García: impasto di fiction e non fiction, da uno straordinario romanzo spionistico di Almudena Grandes
Per scrivere il romanzo, ponderoso anche nella mole, Almudena Grandes ha studiato le fonti storiche con attenzione, e, a partire da queste ultime, con altrettanta perizia, una perizia ingegneristica, ha allestito un intreccio di notevole complessità ed estensione temporale: il romanzo copre un arco narrativo molto ampio, dagli anni della guerra civile spagnola (1936-1939) – rossi contro neri, vale a dire repubblicani contro nazionalisti, riformisti contro conservatori-reazionari –, banco di prova internazionale della guerra mondiale di lì a venire, alla morte, nel 1975, del caudillo Francisco Franco, che, al termine della guerra civile, vinta dai neri, aveva instaurato in Spagna una dittatura di stampo fascista, e all’immediatamente successivo golpe militare attuato in Argentina nel 1976.
È la storia, attraverso quattro decenni, di due amici, il “medico dei rossi” Guillermo García Medina, e la spia Manolo Arroyo Benítez, un paziente che gli deve la vita. Tra loro, una donna: Amparo, falangista – aderente al movimento nazionalista, di ispirazione fascista – di famiglia monarchica e clericale, dalla parte dei neri. Amica d’infanzia di Guillermo, è a lui legata da un’attrazione erotica le cui conseguenze rappresentano l’intreccio sentimentale della vicenda, affatto lineare nel suo sviluppo. Ma c’è anche Margaret, spia statunitense, con cui Manolo – Rafael, Felipe, Adrián, ed ancora altri nomi gli apparterranno, secondo un principio di moltiplicazione delle identità che asseconda le sempre diverse necessità spionistiche – stabilisce una relazione amorosa intermettente e una collaborazione professionale alla fine del secondo conflitto mondiale, quando la nazista e falangista Clara Stauffer si mette a capo di un’associazione segreta che si occupa di espatriare i criminali del Terzo Reich. Insieme a loro, altre donne e altri uomini – un pugile, in particolare, è una delle figure più dolenti dell’intera vicenda –, personaggi maggiori e minori, tutti comunque caratterizzati con duttilità psicologica e robustezza narrativa, motori di una storia che non si sfilaccia mai nella trama, ma si mantiene compatta fino alla risoluzione di ciascuno dei fili dipanati.
I pazienti del dottor García: conclusione e valutazione
La serie, prodotta da RTVE e distribuita da Netflix, si mette, con puntiglio, a servizio del romanzo omonimo e lo adatta valorizzandone la costruzione narrativa al millimetro, chirurgica nei suoi ingranaggi, e l’ambizione di restituire, attraverso un intreccio di finzione, la testimonianza di fatti storici documentati. La Spagna fu il Paese che anticipò il conflitto internazionale che sarebbe scoppiato nell’anno della fine della sua guerra civile, nel 1939, e fu il Paese europeo che più a lungo ha pagato le conseguenze del fratricidio che si è consumato al suo interno e degli interessi politico-ideologici che le potenze mondiali, durante la guerra fredda, vi hanno proiettato, ora interessandosi alle sorti degli sconfitti, ora – come gli Stati Uniti – voltando loro le spalle, quando i vincitori si sono rivelati più ‘convenienti’ nella battaglia al comunismo.
Per accedervi, occorre, come anticipato, disponibilità alla concentrazione. Eppure, lo sceneggiatore, José Luis Martín, il regista, Joan Noguera, gli interpreti – di cui ricordiamo i principali, Javier Rey, Verónica Echegui, Tamar Novas, ma restituiscono tutti una prova magistrale, nei diversi registri, dal brillante al lacrimoso – non rendono difficile l’impresa, per alcuni in questi tempi eroica, dell’attenzione.
L’affresco a cui contribuiscono, in cui gli elementi del thriller, della spy story e del romance convivono amalgamandosi a perfezione, è dal primo all’ultimo minuto incisivo per la sua potenza di racconto e, ugualmente, di denuncia. Impressiona anche la capacità di tenuta della trama. Di ciò va reso onore, però, soprattutto ad Almudena Grandes, la scrittrice che, con la stesura del suo romanzo, la cui impalcatura è dir poco solida, aveva già fatto praticamente tutto il lavoro. Il suo impegno a piegare la fiction alla comprensione della Storia che, lungi dall’essere relegata allo ieri, proietta sull’attualità le sue ombre e i suoi fantasmi mai elaborati, continua, inoltre, a interrogare i superstiti e convoca alla riflessione sul passato anche le generazioni che, di quel passato, sono figlie senza saperlo. Rendendo disponibile ai suoi abbonati questa storia a partire dalla Storia maiuscola, Netflix offre un grande servizio, che a rigore spetterebbe alla televisione pubblica, e pone alle nostre intelligenze uno stimolo non solo di conoscenza, ma anche di revisione e messa in discussione del presente.
Se proprio alla serie un neo va trovato, un neo però piccolo e trascurabile, questo coincide con un problema squisitamente tecnico. Poiché l’arco narrativo è, come ricordato sopra, molto esteso, i responsabili del casting hanno ritenuto di dover scegliere attori le cui età sono comprese perlopiù tra i 30 e 40 anni, una stagione anagrafica di mezzo tra la più schietta giovinezza e la maturità avanzata. Questa scelta, comprensibile e di buon senso, rappresenta, però, un limite quando la vicenda prende a progredire nel tempo: il make up – o eccessivo o inesistente, sempre comunque goffo – non riesce a compensare con sufficiente finezza e proprietà mimetica lo scarto anagrafico tra personaggio e interprete. Una sciatteria che, benché evidente, toglie poco alla riuscita complessiva del progetto, il quale, per importanza, si colloca ben al di là dei suoi meriti – o demeriti – estetici.