Il complotto contro l’America: recensione finale della serie TV Sky
La recensione della miniserie in sei puntate in onda su Sky Atlantic, trasposizione dell’omonimo romanzo ucronìco di Philip Roth che riscrive uno dei capitoli chiave della storia americana e non solo.
Nella recensione dei primi due episodi di Il complotto contro l’America ci eravamo lasciati con l’interrogativo su quale sarebbe stato il destino e il ruolo dell’America nel corso della Seconda Guerra Mondiale senza il terzo mandato di Franklin D. Roosevelt, con la presidenza nel 1940 finita nella mani del candidato repubblicano, l’aviatore di stampo antisemita Charles Lindbergh. Fortunatamente le cose non andarono così, con le pagine dei volumi di Storia che raccontano un corso degli eventi e delle decisioni ben diversi da quelli narrati dal Premio Pulitzer Philip Roth nel suo romanzo del 2004, dal quale David Simon ed Ed Burns hanno tratto l’omonima miniserie targata HBO, approdata nel mese di luglio su Sky Atlantic.
Il complotto contro l’America: un racconto ucronico con sinistri echi contemporanei
Al termine del sesto episodio possiamo avere un quadro generale di cosa sarebbe accaduto, con il neo-eletto alla presidenza degli Stati Uniti che sceglie una posizione di neutralità, stringendo un patto di non aggressione con Hitler e con l’Imperatore Hirohito del Giappone. Il che scatena reazioni di natura filonazista in cui proliferano antisemitismo e populismo, causa di tumulti, aggressioni, sommosse, disordini civili, atti vandalici e violenze dilaganti in tutto il Paese ai danni della comunità ebraica, con morti e feriti, sinagoghe e negozi di proprietà distrutti o saccheggiati. Reazioni che provocano vere e proprie persecuzioni razziali, che costringono coloro che ne sono vittime a fare i conti anche con la legge marziale e la chiusura dei confini con il vicino Canada. Un incubo grazie al cielo scongiurato all’epoca, ma raccontato con un realismo e una verità tali da apparire allo spettatore come parte integrante di un passato comune che si proietta verso il presente (l’amministrazione Trump) con sinistri echi contemporanei. Sta qui la grande forza del romanzo prima e della serie poi, ossia nella capacità di fare sembrare vero qualcosa che non lo è, attraverso un racconto fatto di una catena di tragiche analogie e corrispondenze con quello che è stato.
Il complotto contro l’America: un’odissea familiare che si riversa in quella storica, con un sapiente incrocio di vicende private e pubbliche
Per farlo Roth usa l’arma potentissima dell’ucronìa, quel genere di narrativa fantastica basata sulla premessa generale che la storia del mondo abbia seguito un corso alternativo rispetto a quello reale. Ciò getta le basi di una narrazione riscritta a tavolino che fa della penna e dell’immaginazione gli strumenti per mostrare l’altra faccia della medaglia, o meglio la strada che si è scelto di non percorrere e dove questa avrebbe potuto portare. Simon e Burns hanno preso in consegna quanto fatto dallo scrittore per consegnare al piccolo schermo un period-drama che ne restituisce lo spirito, le atmosfere e moltissime dinamiche, apportando qualche sostanziale correzione all’architettura del racconto e alla prospettiva attraverso la quale gli eventi vengono narrati. Sin dai primi episodi si può notare come il punto di vista usato nel romanzo, ossia quello di Philip, il figlio più piccolo della famiglia ebrea dei Levin, nella serie invece venga moltiplicato e scomposto, affidato di volta in volta ai vari componenti. Il complotto contro l’America diventa così, pur mantenendo l’intreccio tra dimensione privata e pubblica, un’odissea familiare che si riversa in quella storica.
La serie rispetta l’essenza della matrice letteraria, ma estende il punto di vista del racconto utilizzato nel romanzo, dal piccolo Philip a tutti i membri della famiglia Levin
Il modus operandi scelto dagli sceneggiatori allarga dunque lo spettro narrativo e drammaturgico, dando al fruitore l’opportunità di assistere al continuo passaggio di testimone tra i diversi personaggi chiamati in causa. Così facendo la timeline si stratifica ulteriormente e la linea orizzontale acquista ulteriore slancio, con tutti i singoli membri della famiglia chiamati in causa in scene che riescono a sferrare fendenti al cuore, a cominciare da quella dalla telefonata di piccolo Seldon Wishnow a casa dei Levin dopo la morte della madre in scena nel 6° episodio, o quelle che accompagnano nel 3° episodio il viaggio della famiglia a Washington con conseguente cacciata dall’albergo e duro scontro verbale con la polizia locale.
La confezione scenografica e il lavoro davanti la macchina da presa sono il piatto forte della serie
Ma il piatto forte di Il complotto contro l’America sta nella confezione e nel lavoro davanti la macchina da presa, entrambi in grado di alzare l’asticella di una serie che può contare anche su una scrittura solida e su una regia altrettanto solida. Qualità che trasudano da ricostruzioni scenografiche davvero accurate come si può notare ad esempio nel bombardamento con entrata nel rifugio antiaereo, oltre che dalla performance corale dell’intero cast.