Il diavolo in Ohio: recensione della miniserie Netflix
La recensione de Il diavolo in Ohio, la miniserie Neftflix ispirata a una storia vera, disponibile sulla piattaforma streaming dal 2 settembre 2022
Il diavolo in Ohio, dal 2 settembre disponibile alla visione su Netflix, è l’adattamento di un romanzo del 2017, a sua volta rielaborazione, con elementi fittizi, di una storia vera.
La trama vede la psichiatra ospedaliera Suzanne Mathis accogliere in affidamento temporaneo la giovane paziente Mae, evasa da una setta. Coetanea di una delle sue tre figlie, s’insinua nelle dinamiche consolidate della sua famiglia e, pian piano, ne occupa gli spazi, soprattutto quelli di Jules, la più ostile alla sua presenza in casa. Quando iniziano ad accadere strani incidenti che minano l’equilibrio domestico, Suzanne, con l’aiuto di un detective, prova a scoprire cos’è accaduto a Mae e a ricostruire la sua storia.
Mae, in fuga da una setta, incontra una psichiatra divisa tra salvare lei e proteggere la sua famiglia
In Il diavolo in Ohio un conflitto vede protagonista Suzanne, che si trova divisa tra l’istinto di protezione nei confronti delle sue figlie e la volontà di salvare Mae, volontà che, tuttavia, è difficile leggere in termini altruistici in quanto sembra rispondere più che altro a un sentimento d’onnipotenza: il primo elemento di debolezza de Il diavolo in Ohio, miniserie disponibile su Netflix dal 2 settembre 2022, sembra essere, infatti, un difetto di sintonizzazione emotiva con la sua eroina più adulta. E pure, insieme a lei, il pubblico scopre ‘l’altra vita‘ della fuggitiva, vissuta in una comunità religiosa autosegregatasi appena fuori dalla città, in contrasto rigoroso con i principi che altrimenti regolano la contemporaneità e nella nostalgia di un passato idealizzato. Le sette, del resto, oppongono al mondo il loro sistema autarchico, rifiutando le rapine e le riconfigurazioni sociali e valoriali che il tempo impone con il suo passare.
Articolato in otto episodi da quaranta minuti ciascuno, Il diavolo in Ohio s’appoggia su un libro scritto nel 2017 da Daria Polatin, romanziera e showrunner lei stessa: nel dedicarsi alla stesura del plot del racconto, l’autrice si era ispirata a una storia vera, ma aveva deciso di nascondere i dettagli che avrebbero reso riconoscibili i veri protagonisti della vicenda nonché il nome reale della setta di cui riferisce i fatti. Netflix attinge all’omonima opera della Polatin, cercando di capitalizzare gli effetti frastornanti dei colpi di scena, i quali, tuttavia, diversamente dalle intenzioni, nella trasposizione si producono meccanici, non preceduti da un’adeguata preparazione. I traumi a cui è stata esposta Mae si rivelano uno dopo l’altro, come per intervento di un invisibile deus ex machina, disceso dall’alto a sciogliere la stasi della scena anziché, in modo più naturalistico, risultanti da un processo, espressione del corpo spesso e stratificato di eventi irrelati.
Il diavolo in Ohio: la protagonista è una psichiatra, ma manca quasi del tutto l’approfondimento psicologico
È singolare, inoltre, che la protagonista dello show sia una psichiatra, ma mai vengano approfondite le psicologie dei personaggi né tantomeno restituite in una dimensione di complessità. Il sonoro è utilizzato sia come insegna segnaletica – attenzione: in questo momento sta accadendo qualcosa di sinistro, dovete averne paura! – sia come surrogato stesso dell’orrorifico in sé. La serie non riesce mai a creare, per così dire naturalmente, uno stato di tensione: tutto, dalla fotografia seppiata e dozzinale alla scrittura a dir poco sciatta, è condannato alla piattezza di colore e la recitazione, che per compensazione si fa enfatica, appare così tanto stonata rispetto all’asse estetico-drammaturgico da non riuscire a occultare la sua goffaggine rispetto al contesto.
È un peccato, perché negli Stati Uniti – Il diavolo in Ohio è, da titolo, ambientata in Ohio, ma è stata girata nei mesi finali del 2021 a Vancouver, in Canada – la presenza di culti che adescano adepti grazie alla loro proposta di un contromondo è ancora ben radicata e testimonia un modo di vivere la religione non solo intriso di misticismo, ma anche incapace di articolare un discorso intermedio tra bene e male, di venire a patti con l’opacità che sta nel mezzo, spesso incontrando il mostruoso proprio nel tentativo di evitarlo. Purtroppo, anche qualora riuscisse di tanto in tanto ad accendere qualche interesse, e, a giudicare da ritmo e qualità del prodotto, non è così probabile, Il diavolo in Ohio non riuscirebbe, nella sua professione verso il finale, a mantenere le promesse: episodio dopo episodio vanifica, infatti, sempre più la fecondità del materiale di partenza, già di per sé apparecchiato, per svolgersi, quando non rigido, innocuo, lungo contorni dettati dall’algoritmo, puro robotico automatismo narratologico.