Il Gattopardo: recensione della serie TV Netflix

Kim Rossi Stuart, Benedetta Porcaroli, Saul Nanni e Deva Cassel guidano il nuovo adattamento del capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il Gattopardo è su Netflix dal 5 marzo 2025.

“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. È stata, a suo tempo, la frase che non si scorda, l’impietosa verità custodita dalle pagine di un grande romanzo. È stata, ancora, la battuta memorabile di un film memorabile. È, oggi, l’amo di marketing (scelta rispettabilissima) e il passepartout di classico rinato a nuova vita che raggiunge il pubblico con un format a metà strada tra l’intimità calorosa del libro e la spettacolarità del grande (per ambizioni, per dimensioni) cinema. Il Gattopardo, miniserie in sei puntate su Netflix dal 5 marzo 2025, adattamento del romanzo omonimo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ha in mente proprio questo, mettersi a metà strada. In maniera coerente con lo spirito del testo – siamo in Sicilia, alla vigilia, durante e oltre i moti risorgimentali del 1860 – dei personaggi e dei rispettivi percorsi umani e narrativi, la miniserie, creata da Richard Warlow e scritta anche da Benji Walters, prova a stare in equilibrio tra passato e presente, tra la ricchezza di dettagli (d’ambiente e di psicologie) della pagina scritta e il gusto per l’elegante e dispendiosa ricostruzione d’epoca di un certo tipo di cinema. Con Kim Rossi Stuart, Benedetta Porcaroli, Deva Cassel, Saul Nanni, Astrid Meloni, Francesco Colella, Francesco Di Leva, Paolo Calabresi e non solo.

Il Gattopardo: la terza vita di una storia celebre, con una grande novità

Il Gattopardo; cinematographe.it
credit: Netflix / Lucia Iuorio.

Il Gattopardo è la terza vita di una storia celebre. Il principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore esordiente e in là con gli anni, propone e si vede rifiutare il manoscritto – a suo modo autobiografico – da tutte o quasi le principali case editrici italiane. Muore, in attesa di pubblicazione, nel 1957, convinto del valore dell’opera ma frustrato dai tanti no. La pubblicazione arriverà, postuma, nel 1958, per Feltrinelli, salutata dal favore degli specialisti e dall’apprezzamento del pubblico; è il caso editoriale, più unico che raro, del romanzo che diventa, all’istante, un caso critico e un bestseller. La seconda vita è l’omonimo film, Palma d’Oro al Festival di Cannes 1963, diretto (lui, a differenza dell’autore, è “solo” conte) da Luchino Visconti, con Burt Lancaster, Claudia Cardinale e Alain Delon. Passa alla storia anche perché, secondo il produttore Goffredo Lombardo, il budget astronomico dà il colpo di grazia alla Titanus (non è vero), ma la realtà è che si tratta di uno dei più grandi film della storia del cinema e forse è per questo che per sessant’anni la questione rimane cristallizzata nella combinazione di uno straordinario originale (il libro) e di un adattamento dal sapore, per così dire, definitivo (il film).

Il mantra dei creatori, Richard Warlow e Benji Walters, è lo stesso dei registi di puntata, Tom Shankland (ep. 1,2,3,6), Giuseppe Capotondi (ep. 4) e Laura Luchetti (ep. 5): ogni generazione ha il diritto di proporre la sua versione di una grande storia. Si aggrappano alla frase emblematica – tutto cambi, perché nulla cambi – ne ridiscutono il senso, aggiugendoci una sensibilità e un gusto contemporanei, e insaporiscono con un tocco di attitudine iconoclasta. Ecco servito Il Gattopardo ’25: la stessa storia, raccontata in maniera leggermente diversa. Siamo in Sicilia, nel 1860, all’epoca della spedizione dei Mille di Garibaldi. L’imponente Principe di Salina (Kim Rossi Stuart) è un aristocratico siciliano a cavallo tra due mondi. Il suo, borbonico e tremendamente classista, ancorato alla tradizione, sta morendo. Il nuovo, italiano, borghese e laico, bussa alla porta, ma il Principe non è interessato.

Per proteggere l’integrità finanziaria e il prestigio della famiglia, il Principe di Salina sposa l’adorato nipote Tancredi (Saul Nanni) alla bellissima Angelica (Deva Cassel), figlia del volgare mezzadro arricchito Don Calogero Sedara (Francesco Colella), sindaco di Donnafugata, il “nuovo” borghese che avanza. Scegliendo così, ferisce mortalmente i sentimenti dell’adorata figlia Concetta (Benedetta Porcaroli), perdutamente innamorata di Tancredi e sacrificata dal padre sull’altare della sopravvivenza della dinastia. Ecco, Concetta è la novità. Del tutto marginale nel film, laterale (anche se non invisibile) nel romanzo, Il Gattopardo la mette al centro della scena, ne ridiscute i rapporti con il mondo – con il padre, soprattutto, che è il suo mondo – e ne fa il filtro attraverso cui rileggere i grandi temi del libro: l’amore, il potere, il tempo e la morte. A livello di intenzioni, è una scelta interessante. Con più di un problema nell’esecuzione.

Un adattamento meno coerente delle prime due versioni

Il Gattopardo; cinematographe.it
credit: Netflix / Lucia Iuorio.

Aristocratico chiama, aristocratico risponde. Il principe Giuseppe (Tomasi di Lampedusa) e il conte Luchino (Visconti di Modrone) parlano la stessa lingua, quella di due spodestati dalla Storia partecipi del sentimento di un mondo aristocratico e classista che non esiste più, del quale avvertono l’eco e che in parte rimpiangono. Il filo rosso delle prime incarnazioni gattopardesche, oltre il Risorgimento, oltre la complessa architettura sentimentale del film e del libro, era il dovere di fare cronaca degli ultimi bagliori di un mondo irrimediabilmente perduto. La filosofia del “tutto cambi perché tutto resti com’è” funzionava da impietoso monito sull’eternità delle ingiustizie e degli squilibri che governano il mondo (l’interesse prevale sul sentimento, la corruzione sulla giustizia), mentre ogni cosa tendeva al dissolvimento. Il richiamo nostalgico a un mondo di gattopardi rimpiazzato dall’età degli sciacalli era il contenitore tematico che serviva, allo scrittore e poi al regista, per armonizzare il discorso sentimentale, la ricostruzione storica e il quadro d’ambiente.

Il Gattopardo di Netflix tutto questo non l’ha più. Ridiscute l’importanza di Concetta e poggia sulle sue spalle il cuore della storia, per svecchiarla e renderla comprensibile a un pubblico contemporaneo senza però disperderne il fuoco narrativo e tematico. Ma, per quanto intensamente delicata e piena di dignità – animata da un pacato carisma – sia la prova della sempre brava Benedetta Porcaroli, il suo personaggio non può, anche volendolo, racchiudere in sé la complessità della storia, che si mostra infatti slegata, fuori fuoco, caotica. Il Gattopardo è la somma di tante linee narrative – Risorgimento, amore, una dinastia che si spegne – che non danno, in alcun modo, un totale armonico. L’amore, se di amore si tratta, tra Tancredi/Saul Nanni e Angelica/Deva Cassel, sboccia senza che lo spettatore abbia il tempo di capire come e perché, e altrettanto rapidamente finisce in un angolo. La ricostruzione storica non va troppo oltre la superficie, e forse assistiamo troppo da vicino al progressivo deteriorarsi della salute e dello spirito di Don Fabrizio/ Kim Rossi Stuart.

Il Gattopardo cambia tutto – sostituisce lo sguardo del padre a quello della figlia – perché nulla cambi – c’è sempre un gattopardo a dominare la scena, un ottimismo un po’ fuori posto – forzando il senso del libro, rimpiazzando la riflessione su amore, vita, morte e potere con un dramma familiare e sentimentale molto più convenzionale. Con l’eccezione del bravissimo Francesco Colella, che fa muovere, parlare, pensare il suo Don Calogero come l’uomo-sciacallo che è realmente, il conto lo pagano soprattutto i comprimari, da Astrid Meloni (la Principessa Stella) a Paolo Calabresi (Padre Pirrone) all’inespresso, non per sua colpa ma è un vero peccato, Francesco Di Leva (Russo).

Il Gattopardo: valutazione e conclusione

I tempi erano maturi per una nuova versione, ma Il Gattopardo made in Netflix pensa che la serialità, con i suoi tempi dilatati e gli spazi più larghi, serva la causa di un adattamento letterario meglio del cinema. Non è così, o almeno non sempre. Il romanzo è costruito sul paradosso di una narrazione stringata che copre un arco di tempo piuttosto esteso. Il film del 1963, oltre il gigantismo produttivo e artistico di Luchino Visconti, nelle tre ore ( e qualcosa in più) di durata era una sintesi tutto sommato asciutta della complessità della fonte letteraria.

Il Gattopardo di Netflix ha il coraggio iconoclasta di aggredire il libro ridiscutendo le gerarchie, mettendo (la) Donna Concetta al centro, staccandosi dalla Sicilia per un intermezzo torinese, ma non sa valorizzare il suo coraggio in maniera soddisfacente; nell’estetica, nello spettacolo, nei sentimenti e nei temi. Una miniserie dispersiva, che funziona e intrattiene perché alla base c’è un testo di valore assoluto, ma che confida troppo nei tempi lunghi della narrazione seriale. Dilata, deforma, espande: ha poco da offrire, a giustificazione della scelta.

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 2.5
Recitazione - 2.5
Sonoro - 2.5
Emozione - 2.5

2.5

Tags: Netflix