Il leader: recensione della serie francese Netflix
La recensione della serie crime e thriller francese diretta da Nicolás López e Ange Basterga che porta personaggi e spettatori nel cuore di una guerra tra clan. Dal 10 marzo su Netflix.
In alcuni Stati dell’Africa settentrionale, il Caïd è colui al quale sono stati attribuiti oltre ai poteri politici e amministrativi, anche quelli militari. Un governatore per dirla in parole povere. Una figura, questa, che lo showrunner Nicolas Peuffallit ha preso in prestito per battezzare l’omonima serie francese approdata nel catalogo Netflix a partire dal 10 marzo con il titolo Il leader. Qui però non ci troviamo su suolo africano, ma su quello europeo, con la figura chiamata in causa che assume un’accezione del tutto negativa. Il capo in questione il potere se l’è preso con la forza a colpi di pistola, assumendo la guida di una terra dove le Istituzioni non hanno voce in capitolo e le forze dell’ordine (quelle che agiscono alla luce del sole) sono bandite.
Il leader: le riprese di un videoclip si trasformano in una vera e propria lotta per la sopravvivenza in una terra ostile
Siamo in un quartiere violento non meglio identificato situato nel Sud della Francia, una delle tante banlieue che sul piccolo e sul grande schermo hanno fatto da sfondo a fatti di cronaca nera, rivolte e faide sanguinarie. Ed è nel mezzo di una guerra tra clan per il controllo delle piazze di spaccio che loro malgrado e insaputa si ritrovano l’aspirante cineasta Franck (Sébastien Houbani) e il suo fedele operatore. Ufficialmente, anche se ritenute presenze poco gradite alla pari delle camere che si portano dietro, i due sono lì per girare un videoclip su richiesta di Tony (Abdraman Diakite), il carismatico ma pericoloso leader del titolo che vorrebbe sfondare sulla scena rap. Ma le cose prenderanno ben altra piega quando l’arte verrà messa da parte, lasciando spazio a una vera e propria lotta per la sopravvivenza in una terra ostile.
Il leader unisce il mondo del narcotraffico alla scena rap musicale
Quella che va in scena nella serie diretta da Nicolás López e Ange Basterga unisce il mondo del narcotraffico alla scena rap musicale, creando una maionese impazzita nel quale riecheggiano progetti audiovisivi di varia provenienza e formato: da L’odio a I Miserabili, dalla saga di Banlieue 13 a Gomorra, passando per Zeta e Il sindaco del rione Sanità. Nulla di particolarmente originale dunque sul piano narrativo e drammaturgico, con un plot, delle dinamiche e dei personaggi che si vanno a collocare in un filone che visti i numerosi precedenti ha ben poco da dichiarare. Per cui non c’è da aspettarsi nessuna sorpresa in tal senso, nessun risvolto imprevedibile sul sentiero thriller tracciato dagli autori in una landa già esplorata dalla Settima Arte e dalla serialità. La catena di eventi e le one-lines di personaggi stereotipati vanno a tessere l’intreccio di un racconto esile e facile da sbrogliare. Il menù offerto presenta piatti della tradizione crime senza alcuna rivisitazione, con tanto di agguati, retate, tradimenti e ammazzamenti vari a tingere di rosso sangue lo schermo.
Il leader resta comunque per caratteristiche un film mancato piuttosto che una serie
Tra l’altro appare piuttosto sospetto il contenitore che accoglie il tutto, a cominciare dal formato scelto. L’odissea di Franck e del suo collaboratore si consuma nell’arco di dieci mini episodi dalla durata variabile (che va dai 15 ai 9 minuti). La struttura lineare cronologicamente e orizzontale nell’architettura, salvo un incipit nel pilot in flash forward al quale ci si ricollegherà in prossimità dell’epilogo, insieme alla disomogeneità cronometrica degli episodi, aumenta il sentore di bruciato. Qui gatta ci cova e si ha come la sensazione di una manipolazione in sede editoriale di un progetto dalla natura diversa rispetto al final cut rilasciato sulla piattaforma a stelle e strisce. Se così non fosse, Il leader resta comunque per caratteristiche un film mancato piuttosto che una serie che cavalca furbescamente e palesemente una moda del momento.
Found Foutage e P.O.V. sono gli ingredienti scelti dai registi per confezionare la serie
L’unica cosa che resta da fare per dare un senso all’operazione va ricercato altrove, da un’altra parte che non sia nei contenuti. E quel qualcosa è la forma e lo stile. Ma anche qui si è deciso di optare per una messa in quadro ormai abusata. Peuffallit, con la complicità dei due registi, prende e frulla il tutto in chiave found footage, utilizzando la modalità P.O.V. per dare una veste e una confezione sicuramente d’impatto, ma non di certo inedita. Modalità, quella del point of view, che da The Blair Witch Project ha trovato sempre più estimatori nel tempo e alle varie latitudini. Motivo per cui non fa notizia che il duo francese abbia deciso di utilizzarla per la loro prima esperienza seriale dietro la macchina da presa. Il ché ha significato per loro e per gli spettatori di turno l’accettazione senza riserbo delle regole del gioco e d’ingaggio che la suddetta modalità ha nel proprio contratto: riprendere sempre e comunque con i diversi hardware a disposizione, anche quando le situazioni lo impediscono e si è costretti a forzare la mano rispetto al realismo. Detto questo, ciò che rimane è un prodotto d’intrattenimento votato all’azione, con scene spettacolari dal ritmo serrato e dal retrogusto videoludico (la sparatoria in soggettiva dell’episodio 9 con le GoPro riporta alla mente Gamer o Ride), da consumarsi tutto d’un fiato e senza pit stop.