Il mostro delle Ardenne: nella testa di Monique Olivier: recensione della docu-serie Netflix
Dal 2 marzo su Netflix, Il mostro delle Ardenne: nella testa di Monique Olivier è una visione obbligata per gli amanti del true crime. Un racconto agghiacciante e non adatto a tutti sulla coppia di serial killer più brutale (e perversa) della Francia.
Tra i nuovi imperdibili true crime Netflix usciti quest’anno, Il mostro delle Ardenne: nella testa di Monique Olivier potrebbe essere il più disturbante. Una visione non adatta a tutti, quella della docu-serie in cinque episodi disponibile a partire dal 2 marzo e diretta da Michelle Fines e Christophe Astruc, che ci mette difronte a una vicenda giudiziaria dall’ orribile entità, considerata come il primo vero caso di serial killer della storia moderna della Francia e del più grande processo giudiziario del paese.
Prima di Michel Fournirer infatti, il concetto di omicidio seriale era ancora un terreno semi sconosciuto, tanto che esperti, autorità giuridiche e penali, testimoni dell’incredibile caso attribuibile all’uomo soprannominato il mostro delle Ardenne, nel corso di questi lunghi diciannove anni (il primo arresto è nel 2003 per accusa di tentato rapimento) hanno denunciano come la risoluzione complessiva sia stata “compromessa” da alcuni buchi di mancate indagini riguardo a cold case mai approfonditi su scomparse di giovani e giovanissime donne nelle zone di confine fra Belgio e Francia, svanite nel nulla e mai più ritrovate.
Il male più “normale”
Ma dietro all’orco Fournirer, morto in cella nel maggio 2021 e le cui vittime sospettate potrebbero salire a 19, vi è dal principio l’ombra “indiscreta” di sua moglie Monique Olivier, una casalinga al secondo matrimonio e dall’insospettabile quoziente intellettivo superiore alla media, la quale fu complice del marito partecipando attivamente all’adescamento di minorenni che venivano rapite in casa, seviziate, sedate, abusate sessualmente e infine seppellite nei chilometri e chilometri di terreno attorno al castello che la coppia riuscì ad acquistare dopo aver prelevato un bottino miliardario fra lingotti d’oro e banconote nascosto in un cimitero da una banda criminale.
Impaurita, evasiva, sottomessa al marito, dall’aspetto trasandato e insignificante, è attorno alla figura ambigua e manipolatoria della casalinga Olivier (che con Fournirer ebbe anche un figlio, dopo averne giuridicamente rifiutato due dal precedente matrimonio) che la serie Netflix, procedendo avanti e indietro nel corso degli tempo dai primi anni ’80 ad oggi, pone il suo accento maggiore nel tentativo di delineare i tratti di un profilo psicologico ancora sfuggente ed estremante enigmatico, e dando voce ad avvocati e periti, familiari e giornalisti per chiedersi fin dove la “aguzzina zelante” si è spinta nella perfetta orchestrazione degli omicidi.
Il mostro delle Ardenne: nella testa di Monique Olivier: complice, vittima, ugualmente responsabile (o di più?)
Ma se alcune risposte sono venute finalmente a galla, c’è un lato di mancata umanità che lascia nel corso del racconto davvero attoniti. Ed è quella mostruosità, più volte ripetuta negli episodi, che confina questa coppia nel regno fantasioso degli incubi dei bambini e delle antiche mitologie; creature orrorifiche “cacciatrici di vergini” incapaci di pietà, empatia e coscienza che di normale e umano non hanno davvero nulla. Salvo, appunto esserlo.
Purché moralmente ed emotivamente sfidante, a tratti cronologicamente dispersivo nella sua balzante costruzione, Il mostro delle Ardenne: nella testa di Monique Olivier si rivela una visione obbligata per gli amanti del genere; un lavoro egregio di inchiesta giornalistica, produzione televisiva, montaggio sapientemente cucito da emozioni, colpi di scena e incredulità e, soprattutto, di psicologia interrogativa sulle derive più aberranti degli esseri umani. Lasciandoci con tanti misteri e punti interrogativi, tutti ancora in mano alla oggi ergastolana settantenne Olivier, questa docu-serie chiude il cerchio su un quesito/questione che sorge tutte le volte che sono le donne al centro di efferati delitti: perché consideriamo più “grave” un killer al femminile rispetto ad uno, egualmente ripugnante, al maschile?