Il tatuatore di Auschwitz: recensione della serie Sky e NOW
Tratta dal romanzo di Almudena Grandes (1960-2021), I pazienti del dottor García è una serie dall’intreccio spesso, di grande valore narrativo e civile. Dentro c’è tutto: la spy story, il mélo, l’affresco storico di largo respiro. Da non perdere per nessun motivo (ma serve concentrazione).
Lale Solokov, sopravvissuto ai campi di concentramento, riceve la visita di un’aspirante scrittrice, Heather Morris. La donna vorrebbe fare della sua testimonianza un libro e così prende appunti. L’anziano signore rievoca l’esperienza di giovane slovacco deportato ad Auschwitz, e lì investito del compito di tatuare i detenuti al loro arrivo. Il suo sguardo, un giorno, incrocia quello vispo di Gita, alla quale tatua, incidendo l’avambraccio, il numero 34902: è l’inizio di una storia d’amore che, per ovvie ragioni, incontra numerosi ostacoli. Ma, proprio in virtù del suo ruolo di tatuatore, Lale gode anche di alcuni piccoli privilegi nel campo e di un maggior margine di manovra: non esiterà a servirsene per offrire aiuto a chi ne ha bisogno e per provare a dare un futuro al fragile legame con Gita.
Il tatuatore di Auschwitz: da una storia vera divenuta romanzo, la serie Sky e NOW
Ispirato a una vera testimonianza che l’autrice dell’omonimo romanzo ha raccolto da un sopravvissuto, Il tatuatore di Auschwitz adatta a mini-serie il materiale narrativo di partenza alternando, attraverso flashback e flashforward, due piani temporali: il presente dell’incontro tra Heather e Lale; il passato concentrazionario riattualizzato dai ricordi di Lale. L’espediente non aggiunge molto se non la sottolineatura che quanto viene mostrato deriva dalla memoria viva di un superstite. Il ritmo della rappresentazione, appunto divisa tra articolazioni mimetiche e parti più pianamente narrative, non guadagna nulla dall’avvicendamento delle ambientazioni, ma resta monocorde e blando: l’impressione che, dalla visione, se ne ricava è che, in fondo, la Shoah sia un pretesto per raccontare altro e non il nocciolo del racconto. Serve uno sfondo che intorbidisca il romance giovanile; l’Olocausto viene allora utilizzato come cornice sufficientemente dark e orrorifica da controbilanciare la melensaggine dei dialoghi tra i due innamorati, la sentimentalità dei loro acerbi slanci di colombelle al primo amore.
Alla delicata questione di come accostarsi artisticamente alla memoria dolorosa delle aberrazioni prodotte dai totalitarismi novecenteschi, di quali debbano essere le relazioni reciproche tra finzione e fonte storica, quale la proporzione dell’interpolazione ‘romanzesca’, si possono dare risposte diverse: l’attinenza rigorosa, per quanto inevitabilmente soggetta a trasfigurazioni nel processo di trasmissione da esperienza restituita a rielaborazione inventiva, al ‘fatto’; l’evoluzione del ‘fatto’ in maschera che lo simbolizzi, lo universalizzi, lo converta in agente di un’altra significazione – ne Il portiere di notte di Liliana Cavani, la Shoah fa velo a una riflessione sul sadomasochismo –; l’estetizzazione della radicalità, nell’alienazione e nella crudeltà, dell’esperienza persecutoria o concentrazionaria, estetizzazione che talvolta sfocia in un feticismo che finisce per comprimere l’autenticità della reinterpretazione.
Il tatuatore di Auschwitz: valutazione e conclusione
Il tatuatore di Auschwitz, seppur avvicinandosi all’ultima, costituisce in fondo un’eccezione a queste tre macropossibilità. La rappresentazione della Shoah è, nella serie, un fondale inerte e separato da ciò che avviene sulla scena finzionale, privo non solo di profondità sua propria, ma anche di capacità di dare profondità al plot romantico, di mediare uno scambio generativo tra Storia (in maiuscolo) e storia (in minuscolo). La strumentalizzazione dell’ambientazione storica è qui furbesca, fine a sé stessa, un’esca per quel pubblico che, alla ricostruzione del passato attraverso il medium filmico, accorda un credito, tributa un vantaggio, riserva una considerazione a priori. Nello show Sky il dubbio non riguarda l’attendibilità del cosa, ma la legittimità del come, se sia, cioè, ammissibile strumentalizzare la tragedia per dare un tono a una vicenda non scialba in sé – è la testimonianza di un superstite di Auschwitz, mai potrebbe esserlo –, ma resa tale dalla vistosa incapacità di trattarla drammaturgicamente.