Junji Ito Maniac: recensione della serie Netflix
La serie animata Netflix tratta dai manga onirici e orrorifici di Junji Ito
È disponibile dal 19 gennaio 2023, su Netflix, la serie anime Junji Ito Maniac, prodotta dallo Studio Deen, diretta da Shinobu Tagashira e sceneggiata da Kaoru Sawada.
La serie, che adatta venti racconti del mangaka Junji Ito, è un ideale seguito di Junji Ito Collection del 2018, sempre degli stessi autori.
Junji Ito Maniac: fra manga e anime
Ito si è fatto conoscere, negli anni, per un tratto pulito e classico, che all’occorrenza sa diventare espressionista e oscuro. Le sue storie raccontano per lo più eventi inspiegabili, in grado di gettare una luce onirica, surreale e crudele sulla vita quotidiana giapponese. I toni variano dall’horror classico con fantasmi, o apparizioni demoniache, fino al body horror grottesco.
Gli episodi che compongono Junji Ito Maniac restituiscono abbastanza fedelmente l’universo figurativo di Ito e le sue tematiche. Si tratta di piccoli racconti surreali che in alcuni casi richiamano figure ricorrenti della produzione dell’autore, come Soichi, l’antipatico ragazzino con carenze di ferro che ama tormentare gli altri o Tomie, sorta di figura femminile emblematica del potere demoniaco che può nascondersi dietro la bellezza. Ogni storia comunque è autoconclusiva e rappresenta un piccolo mondo a sé stante. Gli autori cercano di dare un’identità specifica a ogni episodio, attraverso l’uso espressivo dei colori e di espedienti visivi come la vignette e il rumore video, per imitare la trasmissione di un film horror in una tv a tubo catodico (I bizzarri fratelli Hikizuri), l’aspect ratio 4:3 per mimare il vecchio formato fotografico analogico (Tomie – Fotografia) o ancora il bianco e nero per raccontare un mondo invaso dalla muffa, cioè privato appunto dei colori della vita (Muffa).
Le animazioni purtroppo presentano alcuni punti deboli, come la mancanza di fluidità e la quasi totale fissità degli sfondi. Il tratto dei disegni mima quello di Ito, ma pecca di eccessiva pulizia e, in qualche maniera, nell’adattamento dal disegno cartaceo a quello animato, avviene una sorta di normalizzazione di un’estetica altrimenti davvero originale.
Junji Ito Maniac. La rilettura dei temi del J-Horror.
I racconti ruotano attorno ad alcuni nuclei tematici centrali, tipici dell’immaginario del J-Horror, filtrati dalla reinterpretazione di Ito.
In primo luogo la rappresentazione della donna sia come vittima che come carnefice. Tutta la cultura fantastica nipponica vive di questa contraddizione. Già durante il periodo Edo, accanto alle più note stampe degli ukiyo-e (i dipinti del mondo fluttuante), si diffondevano quelle a tema sadico e violento, con vittime femminili, le muzan-e. Contemporaneamente sorgevano leggende aventi per protagoniste fanciulle morte, che ritornavano come figure spettrali per insidiare gli uomini – si pensi al caso delle Yuki-onna, le donne delle nevi. I racconti di Ito calano queste figure nella contemporaneità per riflettere sulla violenza, prima di tutto psicologica, che la donna giapponese è ancora costretta a subire, a causa di una società androcentrica, in cui il ruolo femminile, nonostante i cambiamenti degli ultimi cinquant’anni, sembra sempre essere ancorato ai valori tradizionali di cura della casa e della famiglia e alla ricerca della bellezza fisica (I lunghi capelli in soffitta, La bulla, Tomie – Fotografia, La donna che bisbiglia all’orecchio)
Si può individuare un secondo nucleo tematico proprio nella diade casa/famiglia. La casa nel mondo di Ito, non è uno spazio sicuro e amorevole. È un luogo in cui si intersecano varie dimensioni (dell’anima) oscure, generate da quei rancori, ipocrisie e rimpianti, celati dietro concetti come amor parentale o filiale, quando essi vengano inseriti in un contesto sociale che privilegia le gerarchie e l’apparenza, a scapito della realtà dei sentimenti. Le case in Ito dunque presentano più strati, hanno i muri cavi e si collegano a spazi infernali e limacciosi, da cui può emergere di tutto. I componenti dei nuclei familiari, a loro volta, sono vittime di una lenta, ma inesorabile, mutazione – a volte solo morale – che ne rivela una natura mostruosa o patetica (I bizzarri fratelli Hikizuri, Quattro mura, L’intruso, Strati di terrore, Il vicolo sul retro).
A questo tema è legato quello dalla rappresentazione della società contemporanea giapponese. Essa è descritta come una civiltà svuotata di ogni senso logico, improntata sulla repressione emotiva e su un egoismo individualista tipico della generazione della moratoria, la moratorium nigen. Cioè di una generazione fatta di adulti, immersi nel consumismo, che cercano di procrastinare una condizione giovanile priva di responsabilità. Le scelte individuali e sociali, frutto di una tale velleità, però finiscono per scontrarsi con le conseguenze prodotte su una realtà, in cui agiscono ancora le potenze metafisiche delle tradizioni shintoista o buddista (La storia del tunnel misterioso, L’autobus dei gelati, Il covo del demone del sonno, Allucinazioni in biblioteca, Labirinto insopportabile, L’animaletto di Soichi).
Il quarto nucleo tematico, infine, ruota attorno al rapporto che la corporeità intrattiene con la psiche, da un lato e con il mondo naturale e inorganico, dall’altro. Nella tradizione tipica del fantastico giapponese, viene messa in scena una pletora di corpi in stato di divenire-oggetto, per così dire, o se si vuole, di oggetti organici e inorganici che assumono i tratti dell’umano, col solo fine di far emergere i lati nascosti (e rimossi) di una psiche collettiva e individuale, che sembra destinata sempre all’annichilimento (Palloncini appesi, La città delle lapidi, Oggetti trascinati a riva, Muffa, Sculture senza testa).
L’intera realtà sensibile, per Ito, è solo una una patina, che può esser strappata all’improvviso, attraverso uno squarcio o una ferità, inferta all’unità organica umana. Da tale squarcio le identità sofferenti di vittime e carnefici possono aprirsi all’oscuro universo spirituale che si cela dietro la maschera della vita.
Un’ultima nota da fare su Junji Ito Maniac riguarda la decisione di ambientare l’anime negli anni Novanta, periodo in cui molti dei racconti sono stati pubblicati. Una simile scelta filologica, sottolineata dalla sigla finale che tematizza il totem nostalgico della tv a tubo catodico inserisce (e vorrebbe ridurre) l’universo di Ito all’interno dell’immaginario del J-Horror del tempo, in stile Ringu (Nakata, 1998). La piattaforma Netflix cerca, ancora una volta, di costruire le proprie strategie comunicative attorno a un’estetica della nostalgia che, consumata la moda degli Eighties, adesso sembra rivolgersi verso i Nineties.