Kengan Ashura – Stagione 2: recensione della serie TV

Un anime che attraverso i combattimenti di arti marziali miste mette a confronto diverse visioni del mondo.

Sono disponibili su Netflix, dal 21 settembre 2023, i primi dodici episodi di Kengan Ashura – stagione 2, serie anime tratta dal manga scritto da Yabako Sandrovich e disegnato da Daromeon, pubblicato dal 2012 al 2018, sulla rivista digitale Ura Sunday di Shogakukan e raccolto poi in ventisette volumi. La serie è diretta da Kishi Seiji e tendenzialmente segue in maniera fedele il manga.

Kengan Ashura Cinematographe.it

Kengan Ashura è un anime di genere sportivo, un supokon, che si incentra sulle arti marziali. Il protagonista Tokita Ōma è un giovane misterioso che sembra vivere solo per la lotta. Viene ingaggiato dalla multinazionale Nogi, per esserne il rappresentante in un torneo di arti marziali clandestino, il Torneo di annientamento Kengan. Pare infatti che fin dal periodo Edo si organizzino questi scontri segreti in cui le élite del Giappone, prima e successivamente quelle di tutto il mondo, si giocano denaro e posizioni di dominio sul mercato internazionale, in uno scontro di arti marziali miste, senza esclusione di colpi. Ōma è accompagnato nel torneo da Yamashita Kazuo, impiegato di basso livello del gruppo Nogi, sommerso dai debiti, frustrato e padre single di un figlio hikikomori.

Kengan Ashura. Un supokon postmoderno

La prima stagione ci mostra, da un lato, come l’incontro con Ōma e il mondo dei combattimenti brutali, risvegli in Kazuo la voglia di vivere. Dall’altro lato, descrive nel dettaglio gli scontri fra i vari rappresentanti delle multinazionali nel torneo Kengan e inizia a far luce sul passato misterioso di Ōma. La seconda stagione invece si concentra di più sui lottatori comprimari e sulle trame di potere intessute dal presidente del Kengan in carica e dai suoi rivali, fra cui Nogi, il capo di Kazuo. Per quasi tutta la stagione Ōma è allettato a causa delle ferite subite nello scontro con Kure Raian, membro di una famiglia di assassini, presente anch’essa nel torneo. Verso la fine, però, il protagonista torna in azione e vengono rivelati ulteriori dettagli sulla sua infanzia e sul suo allenamento con il maestro Tokita Niko.

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A differenza di alcuni dei suoi modelli ispiratori, come Baki Hanma (Hirano, 2018) o il classico Rocky Joe (Dezaki, 1970), in Kengan Ashura viene dato poco spazio all’allenamento e alla fase preparatoria degli scontri. La cifra della serie è tipicamente postmoderna. Il montaggio è serrato e la messa in scena tende a gettare immediatamente lo spettatore all’interno dell’azione. Gli scontri, o meglio la violenza e la dinamicità dell’azione, sono il fulcro del racconto. I punti di vista della macchina da presa variano in maniera schizofrenica fra inquadrature tipiche del genere e prospettive ardite e imprevedibili, funzionali a dare risalto alla potenza dei colpi e alla deformazione che i corpi sembrano subire durante l’esecuzione delle tecniche di lotta. I protagonisti assumono un’identità definita e una storia durante i match, attraverso flashback resi con immagini statiche disegnate a mano, che si rifanno direttamente all’estetica del manga e contrastano con le predominanti animazioni digitali. Inoltre come accade di frequente in questo genere di prodotti, gli scontri sono sempre anche scontri fra visioni del mondo diverse. In questo caso vengono messi in scena diversi approcci ideologici alla vita, in un contesto sociale fortemente permeato dal capitalismo neoliberista, qual è quello dell’attuale società giapponese.

Uno scontro fra visioni del mondo senza esclusione di colpi

Nonostante l’apparenza fortemente spettacolare, l’utilizzo della musica metal e di effetti visivi a volte molto pacchiani, l’anime è in realtà un lavoro che riflette su alcune questioni per niente leggere. Ōma e Kazuo, per esempio, rappresentano due generazioni di giapponesi a confronto. Il più anziano è il classico salaryman, ovvero l’impiegato di basso livello, che dedica tutto sé stesso al lavoro, costruendo la propria identità solamente sull’appartenenza all’azienda. È in pratica un’incarnazione del concetto di alienazione nella società postfordista. Nel capitalismo avanzato l’uomo ha valore solo in quanto vettore produttivo all’interno di un meccanismo economico più grande. La soggettività in questa visione è annichilita. La vita appare al soggetto come una mera funzione “macchinica” e ciò determina una frattura psichica fra la percezione del sé e la percezione di un mondo sempre più distante e ostile. Questa forma di alienazione è propria di quella generazione di giapponesi cresciuta durante il boom economico degli anni ottanta. Una generazione che, persa nel motto “produci e consuma” , si rende adesso conto con orrore di come tutte le speranze di rinascita del dopoguerra, si siano reificate in una completa perdita delle proprie radici culturali e dei propri valori sociali. Cioè una generazione che non trova più il senso della vita.

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Ōma dal canto suo invece è una sorta di personificazione dello spirito vitale indomabile della gioventù – non a caso il delirante personaggio di Setsuna Kiryū lo vede come un dio. Si badi bene però, il giovane lottatore non rappresenta lo spirito della gioventù contemporanea. Si tratta piuttosto di una sorta di astrazione, di un idealizzato primordiale (giovane) spirito guerriero giapponese. Infatti Ōma è un orfano che ha vissuto in una zona del Giappone in mano al crimine e alla distruzione. Ancora una volta, nonostante il manga e l’anime siano contemporanei, siamo di fronte alla raffigurazione del dopoguerra nipponico. Questo periodo rappresenta per il Giappone contemporaneo una sorta di nuova ideale giovinezza. Una giovinezza improntata però allo spirito di sacrificio e alla durezza. Il protagonista, come tanti orfani degli anni cinquanta e sessanta, ha dovuto lottare fin da piccolo per trovare il proprio posto nel mondo. Per questo motivo il rapporto fra Ōma e Kazuo è invertito. È il più giovane a insegnare il senso della vita al più anziano. Un senso che passa per la lotta per la sopravvivenza e per la riscoperta della materialità del corpo attraverso la violenza e il dolore. Seguendo infatti un’altra delle tendenze tipiche dei supokon, anche in Kengan Ashura l’attività sportiva trova la sua massima espressione in un’estremizzazione delle prestazioni del corpo, che portano alla sua graduale distruzione. Tale distruzione, d’altro canto, permette al protagonista di prendere il pieno controllo della propria fisicità attraverso la volontà e dunque di forgiare una propria autonoma identità. Un’identità incentrata sul superamento di ogni limite fisiologico, tale da permettergli di superare l’alienazione entro cui l’economia della produzione capitalista cerca di addomesticare i corpi. In una sorta di ribaltamento di quel sistema di controllo del corpo dei guerrieri, attuato dall’economia nel contesto spettacolare del Kengan, Ōma utilizza il torneo per ristabilire la propria autonoma identità. Più volte egli afferma il principio della lotta per la lotta, ovvero del miglioramento di sé, indipendentemente dai fini economici di chi lo ha assunto. Così facendo instaura un primato del corpo, della natura organica dell’umano, contro la sua smaterializzazione in vettore economico e indica una nuova prospettiva di vita a Kazuo e alla sua generazione alienata.

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Questa linea tematica principale è accompagnata da una messa in scena di tutte le ideologie tipiche della contemporaneità postmoderna finzionale nipponica, incarnate dai vari fighters. Sono presenti, in ordine sparso e non esaustivo, l’esaltazione del potere e della ricchezza, la capacità redentrice dell’amore, la critica agli effetti nefasti del consumismo di matrice statunitense sui giapponesi, il valore guerriero tipico del bushido, il giustizialismo criptofascista che serpeggia nelle forze dell’ordine e persino una figurazione della volontà di vivere faticando il meno possibile, per godersi una vita improntata alla calma. Il tutto viene inscenato attraverso una disamina di svariate arti marziali – rese non troppo realisticamente, per la verità – come il karate, l’aikido, il jujitsu, la muay thai, il lethwei, la boxe, il sumo, il systema, etc…

Kengan Ashura – stagione 2: valutazione e conclusione

Purtroppo da un punto di vista tecnico Kengan Ashura è discontinuo. Alterna scene molto ben realizzate a scene statiche, in cui gli sfondi appaiono immobili. L’animazione cel-shading, che si usa per rendere i modelli 3D più simili a disegni convenzionali, non sempre funziona. Spesso infatti sembra di trovarsi di fronte alle elaborate animazioni di un videogioco, più che davanti a un anime. Insomma la qualità visiva non è il punto forte di questa serie animata. La struttura narrativa che procede per scontri, inoltre, può risultare un po’ ripetitiva, ma questo è un inconveniente del genere più che della serie in quanto tale. Alla fine però se si accetta di chiudere un occhio su queste debolezze tecniche, Kengan Ashura offre un buon intrattenimento per gli appassionati degli anime a tema arti marziali.

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Regia - 3.5
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 2
Recitazione - 3
Sonoro - 3
Emozione - 3

2.8

Tags: Netflix