La chimica della morte: recensione della serie crime disponibile su Paramount+

Ambientato tra Norfolk ed Ebridi Esterne con protagonista Harry Treadaway nel ruolo di un ex antropologo forense reinventatosi medico condotto, ma richiamato a 'interrogare' cadaveri particolarmente difficili, La chimica della morte è un thriller tradizionale e di eccellente fattura.

I corpi parlano a chi sa e vuole ascoltarli. Continuano a parlare anche quando sono corpi di persone morte e in avanzato stato di decomposizione. Persino le loro ossa lo fanno. L’antropologo forense, più dell’anatomopatologo, è formato perché sia in grado di leggere i resti, è esperto nella loro paziente decifrazione. Interviene nel caso in cui il cadavere non sia facilmente identificabile perché, tra il suo ritrovamento e la morte, è passato troppo tempo. 

Simon Beckett, giornalista e scrittore di gialli, è una garanzia per gli amanti del genere: l’intuizione che ha contribuito alla sua fama di sapiente tessitore di trame poliziesche e di ancor più perfetto pianificatore di equilibrismi ad alta tensione è stata proprio quella di utilizzare come protagonista dei suoi libri un ex antropologo forense di nome David Hunter costretto dalle circostanze a recuperare un’identità professionale deposta dopo un grave lutto, la cui incisione traumatica esiste – e insiste – percussivamente nella forma di frammentate e ricorrenti memorie dell’accaduto. Sukey Venables Fisher, per la casa di produzione Cuba Pictures, ha adattato due dei sei romanzi di Beckett, in Italia tutti editi da Bompiani, a una serie di sei episodi ora distribuita da Paramount+: il risultato dell’operazione è di ottima qualità sia dal punto di vista narrativo-rappresentativo – nel rapporto tra dilatazioni e contrazioni ritmiche del racconto visivo, nel ricorso estremamente ragionato a dispositivi di suspense e a impennate adrenaliniche, nella capacità di evocazione del perturbante – sia per quanto riguarda la fotografia, luministicamente cesellata. 

La chimica della morte: ispirata a due libri del giallista Beckett, la serie segue le indagini sui resti di un ex antropologo forense richiamato al suo dovere

la chimica della morte recensione cinematographe.it
Harry Treadaway (Exeter, 1984) è un attore britannico. In ‘Chimica della morte’ veste i panni di un antropologo forense deciso a cambiare vita, ma costretto a tornare alla sua vecchia processione dal ritrovamento di un cadavere femminile in avanzato stato di decomposizione.

Deciso a trascinarsi morto in vita e ad abbandonare un vecchio sé su cui grava un ingombrante senso di colpa, David Hunter si è reinventato medico condotto a Manham, un villaggio nel Norfolk abitato da una comunità di poche anime. Il ritrovamento di un cadavere femminile, fantasiosamente manipolato e coreografato, lo costringe a rimettersi a servizio dell’imperativo della verità e a offrire aiuto alla polizia locale. Come spesso accade nei luoghi piccoli e chiusi in un bolla sociale, tensioni, conflittualità e frustrazioni si dipanano segretamente, liberando, inavvertitamente, un’elettricità sinistra, angosciosa. La chimica della morte restituisce pienamente la violenza sotterranea derivante dall’impossibilità di fuggire al grande occhio giudicante dei pari resi per forza intimi dall’inevitabile promiscuità dei rapporti vissuti negli spazi angusti concessi a minuscole, serrate comunità, l’ostilità nei confronti dei corpi spuri rappresentati dagli ‘stranieri’, da chi, come David Hunter, viene da fuori e, benché accolto in modo apparentemente fraterno, è, in verità, temuto e respinto. 

Questa serie in sei episodi, che va guardata fino agli ultimissimi titoli di coda per non rischiare di mancare neanche un colpo di scena, sembra occuparsi, in fondo, soprattutto del corpo come estraneo – carcassa di ossa e carne che sopravanza all’essere umano anche quando non è più tale –, il corpo morto e di sovrappiù come unico elemento in grado di sopravvivere, anche se mutilato e sfigurato, nella sua dimensione chimico-biologica, alla morte biologica in sé; parallelamente, si misura col corpo estraneo, nel senso di alterità che minaccia l’omogeneità riparativa del tessuto sociale e costringe l’individuo al confronto con l’alterità dentro di sé. Un’alterità spesso oltremodo mostruosa. Anche quando lo scenario si sposta dall’Inghilterra sudorientale alle Ebridi Esterne, lo schema non cambia: David Hunter deve aiutare la polizia locale a risolvere il caso di una donna morta per combustione e si ritrova inserito, suo malgrado, in una comunità di pescatori apparentemente inerte, nella quale, però, appena al di sotto della soglia di superficie, si agitano sentimenti di impotenza e (reattivamente) di furia. 

La chimica della morte: conclusione e valutazione

‘La chimica della morte’ adatta due dei romanzi della saga con protagonista David Hunter.

L’aspetto fulvo e languido di Harry Treadaway, metà della coppia di attori gemelli omozigoti nati a Exeter nel 1984 (l’altra è Luke), con quei suoi occhioni blu dolentemente incastonati in un volto che qui ci appare sorprendente segnato e torturato, risponde a pieno alle esigenze del suo personaggio: giovane luminare dell’antropologia forense bastonato dalla vita che finisce un po’ per scelta un po’ per caso non solo a scavare nei segreti di cadaveri maciullati o inceneriti, ma anche a detonare pulsioni sadiche e maniacali, rimaste troppo a lungo sigillate, di paesani rispettabili di comunità rurali da cartolina.

Il team creativo e realizzativo della serie è bravo a insinuare, senza mai né precipitare né calmierare le forze motrici della vicenda scenica, l’inquietudine che serpeggia all’interno di microcosmi di persone che si conoscono tutte e, appunto perché si conoscono tutte e tanto, non si conoscono affatto. O forse sì, ma fanno finta di no. La restante parte di fascino di una serie che non si distingue per originalità, ma sì per la sua eccellente artiginalità, la offre la doppia ambientazione anglo-scozzese: grigia e verde, ventosa, struggentemente evocativa di insoddisfazioni esistenziali, repressioni emotive, angosce abbandoniche. Quando si ha così poco da fare e da amare, la paura di perdere quel poco – o pochissimo – genera la più intensa passionalità erotica e aggressiva. È lì, nella reversibilità di odio e amore, che incide la penna dello scrittore e lo show è proprio lì che la segue puntualmente.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 4
Recitazione - 3.5
Sonoro - 4
Emozione - 3.5

3.6