La giudice: recensione della serie TV Netflix
Su Netflix dal 25 febbraio 2022 è disponibile La giudice, il legal drama coreano che solleva la questione della criminalità minorile e la concatenazione causale con la responsabilità genitoriale o sociale.
Dal 25 febbraio 2022 è disponibile sul catalogo Netflix la nuova serie tv coreana La giudice, un legal drama in dieci episodi diretto dal regista Jong-Chan Hong. Protagonista Sim Eun-seok (Kim Hye-Soo), una giudice a latere appena nominata dal tribunale minorile del distretto di Yeonhwa per occuparsi di casi di giovanissimi criminali ai margini della società. Intransigente e pienamente convinta del disprezzo che lei stessa prova nei confronti di quei minorenni, la donna si ritrova in mano storie delicate dalla non facile risoluzione, di figli lasciati soli da genitori assenti o violenti, sbandati fra dipendenza e aggressione, sballottati in case famiglia molto spesso covo di altrettanta ostilità e incomprensione.
La giudice: la legge sui minori e i limiti d’età
La serie pone al centro della propria riflessione la legge sulla tutela dei minori in giudizio che prevede l’annullamento dell’imputabilità se sotto i quattordici anni di età e una pena di massimo venti anni di reclusione per i giovani under 18, cercando di domandarsi i limiti e i concreti benefici di una (non) punizione estremamente clemente come questa (in vigore nel paese asiatico quanto in Italia) e, dall’altra parte, d’interrogarsi su una sua possibile abrogazione.
Tutto è filtrato attraverso il volto implacabile e gelido dell’attrice Kim Hye-Soo, perno attorno cui ruota l’intero racconto e garanzia di una sorta di divario emotivo che permea la totalità stilistica dell’opera. Trincerata dietro le mura di voluto distacco umano alle dolorose vicende dei ragazzi in questione e simbolo di una legiferazione che deve essere quanto più obiettiva possibile, La giudice fatica un po’ a trovare le giuste coordinate d’empatia con lo spettatore, rafforzando più del dovuto la distanza di visione imparziale e perdendo con frequenza la partecipazione alle storie che tratta, fuori e dentro l’aula del tribunale.
Il k-drama ha il pregio di toccare questioni urgenti e contemporanee, ma senza il coraggio di capire davvero le ragioni sociali di quel malessere generazionale
Nonostante la violenza sia maneggiata con onestà e con l’obiettivo di esplicitare la sua ciclicità di trasmissione educativa da padre in figlio senza troppi giri di parole e non privandosi di elementi crudi di estremo realismo, la serie Netflix ha il coraggio di portare sullo schermo le responsabilità genitoriali e sociali dietro la criminalità minorile, ma non quella di capirne a fondo il perché, di ricercare cioè un discorso ancor più ampio in grado di toccare le radici più profonde di quel malessere generazionale.
La scrittura sembra infatti sfiorare le cause dei reati, anche veri e propri omicidi brutali e insensati, liquidandoli tuttavia con ragioni quali l’assenza delle figure parentali, le malattie mentali non curate adeguamene, la mancanza di denaro. Verità certamente che giustificherebbero (in parte) atti compiuti da adolescenti lasciati soli da una società che invece dovrebbe farsene carico, eppure La giudice sembra non osare addentrarsi più in là nella spinosa questione, preferendo invece restare nei limiti della semi-denuncia e nella freddezza della messinscena, segnata da un ritmo compassato e una razionalità affettiva misurata al massimo, così come si approccia ai casi la stessa protagonista.
La giudice rimane comunque un prodotto interessante seppur non pienamente avvincente, un courtroom drama con un conseguente avvicinamento alle modulazioni crime che ritrova il suo valore nella scelta univoca di portare in tribunale le vite dei minorenni. Di capire se gli adulti siano complici oppure no della loro delinquenza, evitando tuttavia di proporre soluzioni o alternative nel limite narrativo del sollevamento (necessario e non banale) delle domande sulla nostra condizione giovanile contemporanea. Così in Corea come nel resto nel mondo.