La regina degli scacchi: recensione della serie TV Netflix
Sensazione di quest'autunno, La regina di scacchi è un piccolo capolavoro di racconto, rappresentazione e recitazione, affidato a una sceneggiatura perfetta, al magnetismo di Anya Taylor-Joy e all'eterno fascino del gioco degli scacch.
Interrompete qualsiasi cosa stiate vedendo e concentratevi su di lei, Elizabeth Harmon, ‘la regina degli scacchi’ dell’omonima serie Netflix. Tratta dal romanzo del 1983 di Walter Travis, La regina degli scacchi non è, come si potrebbe immaginare, solo il ritratto di un enfant prodige che riesce a riscattarsi da un’oscura storia d’abbandono e tragedia, affermandosi grazie al suo talento formidabile per gli scacchi e incontrando, insieme al successo, anche il vizio, e, insieme al glamour, la dipendenza da alcol e psicofarmaci. Certo, il genio c’è e la sregolatezza pure.
La piccola Beth, rimasta orfana di madre a seguito di un incidente provocato suicidariamente dalla madre stessa, viene accolta in un istituto cristiano dove un’impeccabile istitutrice educa le sue ospiti a comportarsi a modo a suon di vitamine e «pillole che regolano l’umore». Inizia in modo ‘dickensiano’ il romanzo di formazione di Elizabeth Harmon, dagli anni del collegio al successo planetario grazie alla sua destrezza nel gioco degli scacchi, insegnatole dal custode Shaibel; dal grembiale verde scuro su camicetta verde chiara ai modelli griffati più in voga nei ruggenti Sixties, tra prodromi di ribellione e lezioso bon ton. Continua, poi, seguendo l’altalena di sfolgorii e autosabotaggi, impennate trionfali e risucchi regressivi.
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La grandezza nel gioco e la goffaggine nei sentimenti: le contraddizioni di un genio
Eppure, il fascino di questa serie in sette episodi da un’ora e qualcosa di più ciascuno non si rivela nell’esplorazione di ciclotimie e chiaroscuri dell’estro, quanto nella capacità di utilizzare la narrazione, la macro-storia di Elizabeth e le micro-storie che le ruotano attorno, per evocare una femminilità sì ambiziosa e altrettanto ambivalente, ma soprattutto autenticamente diversa, lontana tanto dal paradigma della brava ragazza quanto dal contro-paradigma della ribelle, una femminilità tutta asciugata d’emotività e spostata sul versante cerebrale, appesa a un’intelligenza logica e fredda, a un’intelligenza che qualcuno potrebbe trovare – ma è un cliché – più maschile che femminile.
Il magnetismo di Anya Taylor-Joy, ex modella e astro nascente dell’audiovisivo seriale e filmico (l’abbiamo vista, recentemente, in Emma di Autumn de Wilde), si rivela nel suo sguardo appuntito e nel muso affilato della cerbiatta algida, non solo un po’ freak e un po’ femme fatale, ma simultaneamente le due cose insieme. È straordinaria, come del resto Isla Johnston, che interpreta la Harmon bambina, nel comunicare, con il solo guizzare d’occhi, solitudine e resistenza, elettività e smarrimento. Alla nonchalance nel giocare a scacchi, nel vincere e anche nel perdere, fa da controcanto la goffaggine nel riconoscersi arresa a sentimenti che non sa capire, ad amori che non sa né inseguire né tenere.
La regina degli scacchi: Anya Taylor-Joy è una femme fatale un po’ freak
La regina di scacchi è, quindi, se volessimo utilizzare le etichette del nostro tempo, sì una storia di empowerment, ma soprattutto una storia di femminilità plurale, plurale all’interno di uno stesso soggetto femminile – appunto, quello di Beth – e plurale nel dispiegarsi di relazioni di sorellanza, nel rapporto tra Beth e Jolene, le due orfane che sospendono, nell’attesa di essere adottate, la loro educazione affettiva accumulando una rabbia che si troverà, in ciascuna di loro diversamente, il suo modo particolare di flettersi e anchilosarsi, e, ugualmente, nel rapporto tra Beth e la madre adottiva, Alma, una donna soffocata nelle aspirazioni da grammatiche borghesi interiorizzate e da ordinarie crudeltà coniugali.
L’arte del racconto: se le partite di scacchi diventano un thriller
Scott Franck, sceneggiatore e regista, sa come coniugare narratività ed estetica, come saldare storytelling e sensorialità, e la festa è, ne La regina degli scacchi, sempre doppia: appagato è il nostro desiderio di storie e appagato è il nostro desiderio di bellezza. Le soluzioni drammaturgiche sempre varie riescono a fondere racconto e rappresentazione, rendendo avvincenti anche e soprattutto le partite di scacchi, gli estenuanti agoni che si consumano nell’intuizione di una successione di mosse e si risolvono, spesso, grazie a un inatteso colpo di reni, una fantasia improvvisa, un immaginare percorsi segreti, cunicoli del pensiero in cui placare gli affanni del cuore, con cui otturare i buchi d’amore. La regina degli scacchi è, in fondo, soprattutto una love story: la passione corrisposta, e persino un po’ ossessiva, tra un’ex bambina ferita e la sua scacchiera.