La storia di Lisey: recensione finale della serie di Apple TV+
Nonostante le ottime premesse iniziali, l'opera diretta da Larraín e scritta da King, si va ad incastrare in una struttura narrativa piuttosto ridonante e confusionaria supportata però da un linguaggio estetico vertiginoso
Il rapporto tra il leggendario scrittore Stephen King e gli adattamenti cinematografici e seriali dei suoi libri è una storia epica che ha dell’incredibile e nella scorsa recensione abbiamo provato a riassumerla nel miglior modo possibile. Quello che basta sapere è che non è sempre semplice portare sul piccolo o grande schermo un libro perché spesso il linguaggio letterario funziona proprio nella sua essenza più pura, senza dover necessariamente trovare uno spazio nel mondo dell’intrattenimento. Ovviamente poi intervengono logiche commerciali che travalicano qualsiasi ottica puramente creativa, ma è bene ragionare su questo punto, perché credo fermamente che non tutti i manoscritti hanno le potenzialità per diventare altri medium.
Il caso de La storia di Lisey è assai peculiare: la miniserie di Apple TV+ diretta dal noto Pablo Larraín (Ema, Jackie) su sceneggiatura dello stesso Stephen King nei primi due episodi aveva dimostrato di avere un potenziale gigantesco e di entrare di prepotenza nel panorama televisivo con una carica estetica raffinata e un copione criptico, ma affascinante. Dopo l’analisi di altre 6 puntate, però, dobbiamo ammettere che parte del fascino esplosivo iniziale è andato un pochino scemando intaccato parzialmente dalla narrazione, che però non ha rovinato l’intera realizzazione, ma alcune sue parti. L’opera è disponibile dal 4 giugno sulla piattaforma streaming sopracitata, con episodi che sono usciti a cadenza settimanale (l’ultimo, il sesto, sarà caricato il 16 luglio).
La storia di Lisey: tra confusione e reiterazione
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Con il precedente articolo ci eravamo fermati al secondo episodio con tanti misteri che erano stati svelati (forse un po’ troppi) e altrettanti da poter spiegare nel corso del resto della serie. A partire dalla terza puntata, la nostra protagonista Lisey (interpretata brillantemente da Julianne Moore) continua il suo viaggio interiore all’insegna dell’elaborazione del lutto, ma è costretta a fronteggiare sia problemi metafisici e soprannaturali che altri di natura ben più fisica. Questa alternanza tra concreto e intangibile, come avevamo sottolineato nella recensione dei primi due episodi, è molto sfumata e ciò non è sempre un bene a livello narrativo.
La sceneggiatura, che ricordiamo essere realizzata dallo stesso Stephen King, anche autore del romanzo, ha due problemi diversi che la intaccano e che purtroppo rovinano quello che poteva essere un copione grandioso almeno in potenza. Il primo segno di instabilità si avverte nella deriva confusionaria che prende la storia, alcune volte nei momenti di passaggio tra razionalità e irrazionalità ai quali accennavamo poc’anzi, altre volte nella struttura stessa delle puntate. Il pubblico, a prescindere dalla lettura del testo originale, dovrebbe trovarsi di fronte ad una narrazione non per forza limpida in tutte le sue parti, ma almeno chiara nella sua linea principale e nella direzione che deve prendere nei vari avvenimenti presentati.
Ecco, ne La storia di Lisey, per quanto si intuisca la direzione a livello macroscopico, gli eventi microscopici che caratterizzano la storia sono trattati forse in maniera troppo sbrigativa e il risultato è una trama che ha delle evidenti mancanze contenutistiche. Altro discorso, invece, è il continuo processo di reiterazione che viene attuato nelle varie puntate: ci capita di assistere a gli stessi ricordi o situazioni della testa di Lisey, magari con dettagli che cambiano, ma che danno nuove prospettive al racconto. Di per sé tale approccio non è un problema perché cerca di emulare la frammentarietà della nostra mente, ma diventa un ostacolo quando questa struttura è utilizzata massicciamente, perché va a rallentare lo sviluppo della realizzazione stessa.
Detto questo, la sceneggiatura non è completamente insufficiente, però, a differenza dei primi due episodi iniziali che sono esplosivi e ben calibrati in tutto e per tutto, sembra ancorarsi e adagiarsi su una trama che non riesce mai a prendere il ritmo adeguato e che si riprende solo nelle due puntate finali. Tutt’altra cosa è invece l’ambito registico-visivo, uno scambio incessante e poetico tra la macchina da presa di Pablo Larraín e la fotografia di Darius Khondji che è una vera e propria danza sontuosa e barocca che guida lo spettatore con immagini, suggestioni, sogni ed incubi.
La storia di Lisey è un totale fallimento?
All’interno de La storia di Lisey ci sono dei momenti in cui la sceneggiatura è quasi assente e parlano solamente le immagini: in quelle determinate situazioni, il connubio artistico di fondo è talmente tanto suggestivo ed esplicativo che racconta perfettamente senza dover per forza fare affidamento al copione. È chiaro che tale direzione non può essere intrapresa per tutta la miniserie ma fa comprendere come tutto l’impianto tecnico e immaginifico siano veramente di ottima fattura. Ma il potere dell’ambito registico-visivo non sta solo nel suo contenuto didascalico, ma anche in una potenza visiva di rara bellezza.
In particolar modo le scene ambientate a Boo’ya Moon, il mondo onirico presentato ne La storia di Lisey, sono cariche di suggestioni orrorifiche, ma anche fantasy, dialogando sulla sottile linea che demarca gli incubi più terribili e i sogni più agognati. In tale luogo risiede il terrore, ma anche la sconvolgente bellezza e le sequenze costruite da Larraín e Khondji esprimono questa ambivalenza perfettamente, dando tutti gli strumenti necessari allo spettatore per poterla comprendere e toccarla con mano, anche solo attraverso il piccolo schermo. In ogni caso, anche le scene che hanno come sfondo la dimensione del reale sono caratterizzate dalla giusta carica ansiogena, così da esprimere, con la cupezza e la freddezza degli ambienti, il duro percorso emotivo dei personaggi.
Dal punto di vista attoriale, Julianne Moore e Clive Owen, che all’interno della realizzazione incarna lo scrittore Scott Langdon, guidano un cast di tutto rispetto, composto anche da Jennifer Jason Leigh (Darla Debusher), Dane DeHaan (Jim Dooley) e Joan Allen (Amanda Debusher). È evidente l’incredibile lavoro di preparazione psicologica e recitativa al quale si sono sottoposti tutti e dico tutti i singoli componenti del cast, con ovviamente Owen e Moore che spiccano sugli altri per motivi legati al loro importante ruolo su schermo che ovviamente li porta ad essere maggiormente presenti nella storia. I due sono riusciti ad evocare perfettamente, tramite la loro interpretazione, le difficoltà e gli ostacoli di una coppia, calcando fortemente gli aspetti più umani ma anche introspettivi che due coniugi devono affrontare.
Nel complesso, quindi, la miniserie funziona, nonostante i problemi che abbiamo evidenziato a più riprese. È un titolo che va visto anche solo per ammirare la cura estetica certosina e suggestiva messa in piedi dal comparto artistico e per assaporare l’universo kinghiano da un punto di vista diverso dal solito, vivendo insolitamente il prodotto più personale del celebre scrittore del brivido, che già con il romanzo aveva confezionato brillantemente una storia che parlava di sé in chiave tragica ed affascinante.
La storia di Lisey è un prodotto lacunoso per via di una narrazione che potrebbe scoraggiare a causa della sua eccessiva caoticità. L’aspetto trascinante è il reparto registico-fotografico, tra i migliori degli ultimi anni della serialità, un continuo viaggio tra impressionismo e simbolismo che costruisce un mondo attraente in ogni sua componente. Degno di menzione, inoltre, è anche l’eccezionale cast coinvolto. Se la parte narrativa fosse stata curata con più lungimiranza, ci saremmo trovati di fronte ad un capolavoro, purtroppo, invece, le lacune del copione influiscono fin troppo sulla resa finale, buona ma non eccellente.