Ladies First: la storia delle donne nell’hip hop: recensione della docu-serie Netflix
La lotta al discrimine sessuale e raziale passa attraverso la musica nella docu-serie diretta da Hannah Beachler
A 50 anni da quella che convenzionalmente viene intesa come la nascita dell’hip hop, Netflix festeggia con un documentario in 4 episodi diretto dall’esordiente Hannah Beachler, nota ai più come scenografa di film di successo come Black Panther e Moonlight. Ladies First – la storia delle donne nell’hip hop, in un totale di 3 ore soltanto, tenta di condensare quella parte più marginalizzata e ignorata di questi 5 decenni di musica da strada, ridefinendo i margini e i termini di un genere musicale che, per troppo tempo, è stato visto come unicamente maschio ma che ha da sempre fondato il proprio potenziale anche sulle fatiche e sulla passione di moltissime donne. Il titolo della serie viene direttamente tratto dal singolo Ladies First, scritto e interpretato nel 1989 da Monie Love e Queen Latifah, presentataci come una delle più importanti senatrici del rap negli Stati Uniti.
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Perché l’hip hop è anche femmina
Il documentario viaggia attraverso la storia senza preoccuparsi di mantenere una sequenzialità temporale ma suddividendo gli episodi in macro-categorie e accostando continuamente rare immagini d’archivio ai volti e alle parole delle vere protagoniste di questa sottaciuta, ma necessaria, ascesa femminile all’interno dell’universo hip hop: madrine del genere come Sha-Rock, Roxanne Shante e MC Lyte sono alternativamente accostate ai nuovi simboli del rap: Kash Doll, Latto, Tierra Whack, Rapsody, le cui influenze derivano dalle artiste sopra citate e da figure emblematiche come quelle di Lil Kim e Lauryn Hill. Un accatastarsi di talento che arriva ai fenomeni odierni di Cardi B e Nicki Minaj partendo dall’origini in cui Sylvia Robinson, produttrice CEO della Sugar Hill Records, fu determinante e sostanzialmente vitale per la produzione di Rapper’s Delight, iconico brano pioniere del genere che oggi domina le classifiche.
Ma la rappresentanza femminile non si arresta al palcoscenico, lo supera e al contempo lo innalza, ascoltando le testimonianze di chi ha accolto e recepito questa branchia della musica e questo modo di farlo, chi ne ha assorbito la portanza e il risvolto politico-sociale: dalla scrittrice e critica Brittney Cooper all’archivista hip-hop Syreeta Gates, passando per la professoressa Salamishah Tillet ed altri esperti del settore, che vanno a rinvigorire e a dare ancor più credito all’invisibile linea tracciata dalle musiciste, che collega le battaglie e i bisogni del passato alle conquiste e ai diritti del presente.
Ladies First: l’unione fa la forza
Ladies First presenta la lotta al discrimine (un discrimine di genere unito ad un discrimine di razza) come una battaglia collettiva combattuta singolarmente, un’inseguirsi di storie uniche che ricostruiscono la totalità, pezzi di un puzzle che collegati dipingono il quadro generale e la sua progressiva evoluzione. La difficile affermazione di chi per anni è stato solamente oggettivato da quella mascolinità tossica, palesata senza filtri dai video musicali e dai testi misogini e denigratori, è passata attraverso un lungo periodo di scarsissima considerazione, quasi nulla, nonostante l’influenza delle Salt-N-Pepa, di Queen Latifah, di Roxanne Shante, nonostante la massiccia e longeva presenza delle donne nell’industria, che spesso venivano inserite dalle etichette all’interno di gruppi maschili, senza mai poter trovare veramente il proprio spazio. La determinazione e la voglia di affermarsi non si è, però, mai spenta e la fame di rivalsa sta riuscendo oggi a trovare sazietà, con la rivelazione di una femminilità nuova, un nuovo essere donna nera ed orgogliosa, libera, padrona della propria voce, della propria immagine e del proprio corpo.
Ladies First: valutazione e conclusione
Musica, storia, cultura; una docu-serie che non esaudisce ma di certo arricchisce, toccando anche alcune corde più tese soprattutto di chi, da amante del genere, riconosce sé stesso e la propria esperienza sensibile nei nomi, nei racconti e nei brevi stralci musicali proposti dalla produzione. Forte di un supporto fotografico e d’archivio corposo ed esteticamente attrattivo, Hannah Beachler si mostra acerba ma caparbia: opta la scelta di ricostruire per mezzo di una sua personale continuità logica, rischiando più volte di cadere nell’errore del depauperamento di alcuni passaggi, tralasciando l’approfondimento di momenti chiave per l’intero movimento e preferendo, ad esso, l’intreccio delle singole storie e delle testimonianze secondo lei capaci di rispecchiare più precisamente il tortuoso cammino della voce black al femminile.
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