Lavoro a mano armata: recensione della mini-serie con Éric Cantona
Il disoccupato Alain, 57 anni, è disposto a tutto pur di ritrovare e riconquistare la vita che ha perso. Anche a prendersi il lavoro con la forza, calpestando i diritti altrui...
Tra il Charles Bronson di Il giustiziere della notte e il Michael Douglas di Un giorno di ordinaria follia, sta il protagonista disperato di Lavoro a mano armata. Un uomo di 57 anni abituato a lavorare onestamente per sé e per la sua famiglia, invischiato da oltre un lustro nelle sabbie mobili del precariato e della disoccupazione. Fino alle più drammatiche conseguenze. La mini-serie diretta dal carneade di successo Ziad Doueiri – allievo di Tarantino e apprezzato nel 2017 per L’insulto – è tratta dal romanzo Cadres noirs del parigino Pierre Lemaitre, specialista nel genere giallo-noir legato all’attualità.
Dalla pagina scritta allo schermo cambia poco, e già i titoli ci aiutano a comprendere appieno il senso dell’operazione: le “cornici nere” della sopraffazione e della depressione contengono una vicenda fatta di continue sbandate – le dérapages dell’originale francese – a causa di un lavoro che non c’è o la cui natura viene deformata e resa un atto di prepotenza e violenza. Stupisce (in quella che sembra in tutto e per tutto un’iperbole) scoprire che il punto di partenza è una storia vera: il falso sequestro subito nel 2005 da diversi dirigenti di France Télévisions, con corollario di denunce, processi e condanne.
Lavoro a mano armata: verso il punto di non ritorno
Prodotta da Arte e acquistata da Netflix, Lavoro a mano armata modifica e amplia la sua struttura col procedere dei suoi 6 episodi. Potremmo definirlo un social-legal-thriller, che inizialmente ricorda il realismo proletario di Ken Loach (e non a caso l’attore protagonista, il turbolento ex calciatore Éric Cantona, ha già lavorato con Loach in Il mio amico Eric) e il dramma d’inchiesta di Stéphane Brizé (La legge del mercato, In guerra), per toccare poi le corde del thriller poliziesco e approdare al prison e legal movie. Molta, moltissima carne al fuoco, è vero; e in questo senso stupisce la capacità di regia e sceneggiatura di mantenere costante il livello della tensione e dell’interesse.
E una parte decisiva del merito va anche alla bravura degli interpreti, capaci di vestire i panni di diversi “tipi” umani con estrema verosimiglianza. Su tutti ovviamente Cantona/Alain Delambre, scheggia impazzita di un sistema che l’ha reso insicuro, disperato e ferito, portandolo verso il punto di non ritorno dell’esasperazione e dell’accettazione di qualunque proposta per continuare a sentirsi vivo e utile alla società; un estremo a cui fa da contraltare il dirigente megalomane Dorfmann di Alex Lutz, ben disposto a giocare a fare Dio con il mondo degli affari semplicemente perché può e capace di architettare una simulazione di rapimento dei suoi dipendenti, per testare la loro lealtà.
Lavoro a mano armata: “Il datore ha sempre ragione, il dipendente ha sempre torto”
Pur con alcune forzature (fatichiamo un po’ a credere all’amico informatico di Alain, esperto di hackeraggio che vive in una sgangherata roulotte), Lavoro a mano armata risulta solido ed efficace, nella sua trattazione del capitalismo immorale, disumano e avido, che mantiene la povertà per arricchire i benestanti. Ma la buona riuscita dell’opera è data anche da altri due elementi, legati a doppio filo tra loro. Questo tipo di prodotti si focalizza normalmente solo su un aspetto del racconto, omettendo o elidendo il prima e il dopo. Lavoro a mano armata, invece, offre una visione completa e onnicomprensiva non solo sul sequestro ma anche sulla vita in carcere e sulle conseguenze economiche ed esistenziali di ciascun carattere in gioco.
Tutto ciò permette di empatizzare e di relativizzare. Perché, ragionando per estremi, saremmo portati a ritenere Alain vittima di un complesso raggiro basato sull’avidità economica. Approfondendo, invece, ci viene data la possibilità di conoscere tutte le diverse sfaccettature di un uomo che si rivela anche un abile manipolatore che ricatta la sua stessa figlia incinta per prestargli del denaro, che sembra agire solo per difendere la propria famiglia faticando però a dissimulare la necessità di soddisfare anzitutto il proprio ego. Nessuno è mai del tutto colpevole, e nessuno è mai totalmente innocente: una lezione risaputa e già trattata ampiamente da cinema e televisione, che Lavoro a mano armata declina in modo avvincente e stimolante.