Le sette vite di Léa: recensione della serie TV Netflix
Viaggi nel tempo, reincarnazioni e racconto di formazione. La recensione de Le sette vite di Léa, serie tv francese su Netflix dal 28 aprile 2022.
Adattamento per conto di Netflix del romanzo Les 7 vies de Léo Belami (in Italia uscito con il titolo 7 giorni 7 vite) dello scrittore francese Nataël Trapp, Le sette vite di Léa è la serie tv disponibile in piattaforma a partire dal 28 aprile 2022. Un coming-of-age anomalo che intreccia i classici temi di formazione con i viaggi nel tempo e la reincarnazione.
Protagonista femminile e non più maschile come la versione romanzata, la Léa (Raika Hazanavicius) che nel corso di una settimana intera si risveglia indietro di trent’anni e nelle sembianze di estranei (e non) è prima di tutto una diciassettenne nel pieno di una crisi esistenziale, decisa a non prendere il diploma e riversa in pensieri oscuri che cova silenziosa nel buio della cameretta. Figlia di una coppia altrettanto taciturna, tratto che lei soffre particolarmente, durante un party/rave organizzato nelle Gole del Verdon, itinerario roccioso sull’omonimo fiume nominato “Il Gran Canyon d’Europa”, vede emergere dalla sabbia i resti di uno scheletro ancora non identificato, appartenuto forse a un giovane uomo che proprio su quella destinazione ha incontrato la morte.
Le sette vite di Léa: la verità su mamma e papà attraverso la reincarnazione e i viaggi nel tempo
Fin qui, un normale incipit da crime/thriller piuttosto tradizionale. Se non fosse che il giorno seguente, il 15 giugno del 2021, Léa si sveglia nello stesso giorno ma del 1991 all’interno del corpo di Ismael (Khalil Gharbia), uno sconosciuto poco meno che ventenne d’origine araba che con quello scheletro potrebbe avere a che fare.
Sogno, allucinazione o effetto della droga assunta alla festa, sta di fatto che Ismael non è la sola cosa sconvolgente che le accade, perché difronte a lei (ora lui) si manifestano la madre Karine (Mélanie Doutey), ma quella di quanto era diciassettenne (Marguerite Thiam Donnadieu) e con quest’ultima il padre Stephane (Samuel Benchetrit), ma quello di quando era diciassettenne (Théo Fernandez). Quale sia stata la natura del legame intercorso fra i suoi genitori di allora e il bell’Ismael sarà allora il mistero che Léa proverà a sciogliere, abbracciando quegli insoliti viaggi nel tempo come un’esperienza che di certo le spalancherà le porte sulla verità di quell’insofferenza coniugale.
Buone idee ma senza clamore
Mettersi nei panni di altrui identità, opposte a noi per genere, temperamento e collocazione spazio-tempo e capire cosa si provi ad essere proprio ‘loro’ superando la lettura superficiale che tracciamo su chi ci circonda, ne Le sette vite di Léa diventa il leitmotiv di una serie amabile per il disimpegno con il quale soppesa la ricostruzione del (forse) omicidio e la restituzione divertita dell’immaginario pop-rock d’inizi anni Novanta, giocando sulla curiosità dello spettatore che attende nei cliffhanger di ogni fine episodio lo svelamento di chi la protagonista assumerà le vesti in quello seguente.
Non rivelando troppo sulle altre sei identità delle reincarnazioni, si può dire che questa è una serie non priva di incongruenze ma che richiede una certa coerenza di visione: per costruire e mettere assieme gli elementi utili a cogliere le interconnessioni dei personaggi con quel cadavere, Le sette vite di Léa fa della metempsicosi la formula curiosa e accessibile per risolvere “il caso”, somigliando per alcuni versi ‒ seppur servendosi di toni decisamente meno cupi ‒ alla costruzione a mosaico di Tredici, serie in cui ogni carattere aveva in qualche modo una propria responsabilità diretta o indiretta con la morte della protagonista.
Aperta probabilmente ad una seconda stagione e in vetta nei primi posti della top ten dei più visti, la serie camaleontica diretta da Emilie Noblet e Julien Despaux trova un’ angolazione stuzzicante per mettere in scena senza grossi clamori una narrativa nell’ultimo decennio sfruttata a dismisura: quella del racconto di crescita che muta forma dal consueto genere monocorde passando attraverso le vie più strette del fantasy e del crime. O viceversa.