L’uomo che cadde sulla Terra: recensione della serie TV Paramount +
Faraday è un alieno che arriva sulla Terra per portare a termine il progetto del suo predecessore Newton: salvare gli ultimi sopravvissuti del pianeta Anthea...
Lo sforzo principale, di fronte a L’uomo che cadde sulla Terra – disponibile sulla neonata piattaforma Paramount + a partire dal 15 settembre – è fingere che non esista alcun precedente. Solo come opera a sé stante questa ennesima deriva sci-fi a episodi ha una sua dignità, e regge il confronto con i prodotti televisivi di ultima generazione. Il problema, però, è che i precedenti esistono, eccome se esistono: il lavoro degli showrunner Lumet e Kurtzman si basa infatti sull’omonimo romanzo cult di Walter Tevis datato 1963.
Ma c’è dell’altro, ovviamente. Siamo infatti di fronte a un sequel – per quanto libero – di una delle più importanti interpretazioni cinematografiche di David Bowie, quel film che nel 1976 consacrò sia la sua carriera da attore che quella del regista britannico Nicolas Roeg. Questo nuovo Uomo è dunque progetto ostico fin dalle sue fondamenta, in continuo confronto col passato e necessariamente proteso verso un presente frenetico in cui emergere e distinguersi sta diventando sempre più difficile, nel mare magnum della serialità.
L’uomo che cadde sulla Terra: un’emergenza chiamata crisi climatica
«Io vengo da un mondo spaventosamente arido. Abbiamo visto alla televisione le immagini del vostro pianeta. E abbiamo visto l’acqua. Infatti il vostro pianeta lo chiamiamo “Il pianeta d’acqua”.»: la serie tv targata Showtime riprende lo spunto iniziale che fu del film, cercando anche di rimettere in scena quel Thomas Jerome Newton catapultato all’improvviso sulla Terra, precisamente nel Kentucky. Come il Newton di Bowie prima di lui, anche l’alieno Faraday interpretato da Chiwetel Ejiofor proviene da Althea, e ha portato con sé la chiave della fusione quantistica quando è fuggito dalla siccità che sta uccidendo la sua gente.
Alla parabola sognante di purezza corrotta si sostituisce qui un discorso molto più terreno sulla big tech. Faraday è anche molto meno interessato di Newton ad adattarsi alla vita sulla Terra, che si tratti di cibo, sesso o di comprendere le frustranti sfumature delle emozioni umane. Questo non tanto perché è incapace di provare qualcosa, quanto per il fatto che, come sottolinea in ogni occasione, la sua specie è quasi estinta. È più schietto e più concentrato nella sua disperazione, e questo è forse uno dei pochi motivi di reale interesse della serie: 50 anni dopo, la questione climatica è diventata un’urgenza non più rinviabile.
La ricetta per salvare il mondo (e compiacere il pubblico)
L’errore più grave della serie, però, potrebbe essere proprio la prima scena. Mostrando un Faraday di grande successo che racconta la sua storia a una folla in visibilio come una sorta di Elon Musk extraterrestre o come lo speaker compiaciuto di un TED Talk, L’uomo che cadde sulla Terra percorre uno dei cliché televisivi più abusati: aprire nel futuro prima di tornare indietro per spiegare come è successo. In effetti, sapere fin dall’incipit che Faraday convince il mondo di essere un genio ultraterreno prima di capire come, sgonfia buona parte della tensione dello show prima ancora che effettivamente inizi. Non c’è magia, non ci sono incognite.
È questa impronta a sancire la fallacia generale del progetto, che si adagia su stilemi contemporanei inadatti alla storia originale. La scrittura a volte impiega troppo tempo per ingranare davvero, appesantita dalla creazione di misteri – risaputi e “telefonati” – episodio per episodio. E c’è, onnipresente, il desiderio di piacere e compiacere lo spettatore. Con un effetto che, giocoforza, finisce per produrre un effetto uguale e contrario: qui si esita spesso e troppo, cercando con ostinazione un comodo registro medio che non scontenti nessuno. Ma, rinunciando alla splendida stranezza del materiale di partenza, si perde tutto, nel nome di una sbiadita omologazione. Più che una caduta sulla Terra, un grosso inciampo.