Meltdown: l’incidente alla centrale di Three Mile Island – recensione della docu-serie Netflix
Durante le prime ore del mattino del 28 marzo 1979, una catena di sfortunati eventi provoca il peggiore incidente nucleare nella storia degli Usa. A distanza di oltre 40 anni, molti fatti restano ancora avvolti nell'oscurità.
Prima di Fukushima nel 2011 e di Chernobyl nel 1986, c’è stata Three Mile Island. Anzitutto, i fatti: la Three Mile Island Nuclear Generating Station era una centrale nucleare – ora chiusa – a Londonderry Township, in Pennsylvania. Aveva due reattori: TMI-1 e TMI-2. Il TMI-2 è quello in cui le cose andarono male. Verso le 4 del mattino del 28 marzo 1979, le pompe di raffreddamento dell’acqua del reattore cominciarono a guastarsi, causandone il surriscaldamento. All’insaputa degli operatori, una valvola di sicurezza era rimasta aperta, permettendo la fuoriuscita di preziosa acqua fondamentale per evitare l’aumento incontrollato di calore.
Confusi, gli operatori spensero le pompe, portando il reattore a surriscaldarsi ulteriormente. I livelli di radiazione nel reattore TMI-2, e poi in tutto l’impianto di Three Mile Island, cominciarono a salire alle stelle. Temendo un’esplosione, gli ingegneri iniziarono a rilasciare vapore radioattivo nell’atmosfera, esponendo potenzialmente la comunità a fumi nocivi, situazione che si sarebbe verificata ancora una volta nei due giorni successivi. La docu-serie Meltdown – 4 episodi, disponibili su Netflix dal 5 maggio – racconta questa incredibile e potenzialmente tragica storia, riaprendo una ferita ancora non del tutto guarita a distanza di oltre 40 anni.
Il peggior incidente nucleare della storia degli Stati Uniti
Combinando filmati storici (preziosissimi) e ricostruzioni ad hoc, Meltdown rievoca le fasi salienti di una vicenda che presenta tutt’ora diversi lati oscuri, insabbiati per comodità politica o più semplicemente tralasciati per negligenza. Indubbiamente, col passare del tempo gli eventi sono diventati confusi, e i rapporti ufficiali dell’epoca – riletti oggi – risultano incompleti se non addirittura fuorvianti. Nonostante la concreta possibilità di una apocalisse atomica, infatti, l’idea comune a distanza di 4 decenni è che – in un momento storico in cui il nucleare sembrava irrinunciabile – il profitto economico sia stato anteposto alla sicurezza pubblica.
Basterebbe mettere in correlazione due fatti: da un lato, la dichiarazione del vicegovernatore della Pennsylvania, William Scranton, che il giorno successivo al disastro dichiarò che tutto era “sotto controllo” e che non sembrava esserci “alcun pericolo per la salute”; dall’altro la scoperta, avvenuta anni dopo, che metà del reattore si era fuso, e che quindi (più o meno consapevolmente), questo “incidente” avrebbe potuto avere conseguenze devastanti su gran parte degli Stati Uniti. Conseguenze comunque verificatesi, visto l’aumento di tumori e linfomi negli abitanti della piccola comunità di Three Mile Island, esposti a lungo alle radiazioni.
Meltdown: travolti dalla paura dell’ignoto
Dopo una prima metà prettamente cronachistica (forse la più interessante dell’intero prodotto, considerando anche le immagini di repertorio), Meltdown nella sua seconda parte intraprende un meno avvincente approfondimento crime. Negli episodi 3 e 4 la parola passa infatti a Rick Parks, un ingegnere della società di ingegneria Bechtel. Parks descrive in modo acuto le cause percui l’operazione di bonifica della centrale, nel tentativo di risparmiare denaro e tempo, è stata scadente al punto da rischiare di contaminare ulteriormente l’aria e la terra intorno a Three Mile Island con le radiazioni. Le ragioni di Parks, esposte con metodo e coerenza, servono anche a introdurre uno degli aspetti più trascurati in questo tipo di catastrofi: l’impatto emotivo e psicologico.
La paura dei disastri nucleari e la sfiducia nelle dichiarazioni del governo al riguardo hanno avvelenato l’opinione pubblica sull’energia nucleare per decenni, lasciando sotto totale choc una popolazione travolta dall’ignoto e costretta a fuggire da un nemico invisibile (e, per questo, univocamente ritenuto meno pericoloso). Per quanto qua e là la narrazione si abbandoni ad un lato più sentimentale (e quindi meno supportato dai fatti), Meltdown riesce in una durata relativamente stringata – le puntate non superano mai i 45 minuti – a mettere a segno tutti i propri obiettivi: denunciare con argomentazioni verificate e verificabili, educare una nuova platea che magari non aveva mai sentito parlare del tragico evento e intrattenere con ritmo e qualità, seguendo il modello del notevole Chernobyl di Craig Mazin.