My Unorthodox Life – stagione 2: recensione del reality Netflix
Un reality show, giunto alla sua seconda stagione, mostra cosa significa ricostruirsi dopo aver lasciato la comunità ultraortodossa degli Haredim.
In My Unorthodox Life – stagione 2, il reality Netflix disponibile da dicembre 2022, si cerca di capire cosa significa ricominciare una vita lontani dalla comunità ultraortodossa degli Haredim.
Julia Haart, designer, imprenditrice e scrittrice, ex direttrice creativa del brand di lingerie La Perla ed ex CEO di Elite Model Management, ha cinquant’anni e deve ricostruirsi dopo essere stata abbandonata dall’ultimo compagno: l’italiano Silvio Scaglia, imprenditore di origine novarese. Anche i suoi quattro figli hanno dovuto imparare a rimodulare le loro esistenze. Dei quattro – Batsheba, la primogenita, sposata (poi non più) con Ben e diva di TikTok da un milione di follower, l’aspirante avvocato Shlomo, Miriam, creatrice di app, e il più piccolo Aron –, l’ultimo è l’unico ad aver scelto di mantenere il cognome paterno e i contatti con il padre, che visita regolarmente. La famiglia Haart ha una storia difficile – non (più) ortodossa, in senso letterale e metaforico – alle spalle: Julia, nata a Mosca da genitori ebrei ultraconservatori ed emigrata negli Stati Uniti a tre anni, nel 2013, insieme ai suoi figli, ha abbandonato la comunità haredi di Montsey, in New Jersey, in cui aveva trascorso tormentosamente due decenni della sua vita, completamente estraniata dal resto del mondo.
La storia di Julia Haart, tra Haredim e alta moda in My Unorthodox Life 2
La società in cui vivono gli Haredim (plurale di Haredi), ebrei ultraortodossi il cui nome significa “colui che trema alla parola dell’Altissimo“, è blindata e fortemente strutturata: ce la mostra, con gli strumenti propri della fiction, un’altra serie Netflix, di largo consenso critico: Shitsel. A rigore, non dovremmo riferirci agli Haredim con il termine “ultraortodossi“, bensì con quello di “ultrapraticanti“: si distinguono, nel vasto mondo dell’ebraismo ortodosso, proprio perché applicano in modo estremamente scrupoloso i precetti della Torah. Donne e uomini crescono separati a partire dai tre anni e l’incontro tra membri dei due sessi, propedeutico al matrimonio e alla formazione di una famiglia, è combinato da uno shadchan (la traduzione italiana suonerebbe come “il combinatore“). La stessa Julia Haart, diciannovenne, ha contratto un matrimonio combinato con Yosef Hendler, padre dei suoi quattro figli, matrimonio poi finito. In seguito, dopo l’abbandono della comunità haredi, si è risposata, ma il nuovo legame non ha retto a lungo. My Unorthodox 2, la seconda stagione del reality in cui racconta la sua storia di rinascita, prende avvio dalla fine di un’ulteriore unione, quella con Silvio Scaglia, imprenditore italiano da cui si è separata nel febbraio scorso. Poco prima, la figlia maggiore Batsheeva aveva chiuso la relazione quasi decennale con il marito. Madre e figlia si ritrovano, così, single, alle prese con un nuovo giro di valzer esistenziale.
My Unorthodox Life: la formula reality è ormai invecchiata e fallisce nel racconto di una realtà complessa
A dispetto delle apparenze, le donne Haredim, benché sottoposte a una vita irregimentata, non vengono scoraggiate nei desideri di autoaffermazione professionale: dal momento che gli uomini devono studiare, sono loro che lavorano e provvedono al mantenimento dei figli. Julia Haart, fin da piccola appassionata di moda, non ha incontrato il favore dei genitori rispetto alla scelta della carriera da intraprendere, ma nondimeno, da autodidatta, ha imparato a cucire, abilità che le è tornata utile in occasione della sua seconda vita di designer. My Unorthodox Life celebra, infatti, la fatica, ma anche l’entusiasmo, di un’avventura di ricostruzione: la sua protagonista si è dovuta reinventare e, in appena un decennio, ha scalato posizioni professionali sempre di maggior rilievo. Il mito dell’American dream è duro a morire, e anche in questo caso arpiona lo show con il suo lungo incatenamento di illusioni.
I suoi figli, come lei e ciascuno con le sue fragilità e i suoi nodi relazionali, si sono dovuti confrontare con la necessità di scendere a patti con il passato interrotto, di elaborarlo e integrarlo nella loro nuova realtà, in un presente radicalmente altro. Nessuno di loro rinnega l’ebraismo, ma sì la sua versione fondamentalista e liberticida. Nonostante lo show parta, dunque, da premesse di grande interesse e confermi l’attenzione che Netflix mostra da anni nei confronti delle comunità ebree ortodosse – si pensi, oltre che al già citato Shitsel, anche alla mini-serie Unorthodox –, la formula reality, con i suoi sconfinamenti continui nella contraffazione di un vero riaggiustato a favor di sensazionalismo (o di macchiettismo ammiccante), appare inadeguata, e certamente superata, troppo televisiva e troppo sguaiata, perché possa raccontare una realtà di estrema complessità, la cui rappresentazione necessiterebbe di una maggiore contestualizzazione e di dispositivi d’indagine più raffinati.