Narcos: Messico – recensione della serie tv Netflix
La recensione completa di Narcos: Messico, una serie tv che risulta riuscita dal primo all'ultimo episodio, con dialoghi coinvolgenti e un ritmo affasciante e oscuro.
Una guerra senza esclusioni di colpi. Due uomini, l’uno contro l’altro. Due personalità forti, coraggiose ciascuno a proprio modo, quasi epiche. Da una parte l’agente della Dea Kiki Camerena/Michael Peña, dall’altra il signore della droga, Miguel Ángel Félix Gallardo/Diego Luna; un gioco al massacro del gatto con il topo che non lascia in pace mai. Questa è la base su cui si costruisce Narcos: Messico – prodotta da Gaumont Television per Netflix, scritta da Eric Newman, produttore esecutivo insieme a José Padilha, Doug Miro e Carlo Bernard -, quarto capitolo di Narcos ma che in realtà è la prima parte di una serie tv a se stante, disponibile su Netflix dal 16 novembre 2018, che racconta la guerra della droga.
Narcos: Messico – la nascita del cartello di Guadalajara
Lo show targato Netflix ha scelto una strada complicata, ricominciare dopo il successo delle prime due stagioni grazie alla grande personalità di Pablo Escobar – una figura complessa e sfaccettata, un Re Mida amato dal popolo ma anche profondamente odiato, un uomo pieno di rancore e desiderio di scalare il cursus honorum del narcotraffico – e di una terza che ha comunque sentito e subito il trauma dell’assenza del suo “eroe”. Narcos: Messico ha scelto la strada migliore e più intelligente, cambiare. C’è ancora la polvere bianca, ci sono ancora i cartelli ma queste dieci puntate segnano un nuovo inizio con una diversa location e diversi protagonisti: il Messico degli anni Ottanta e la nascita del potente cartello di Guadalajara.
La Colombia, lacerata e logorata, produttrice di polvere bianca e morte, che lascia i suoi figli morenti sul ciglio della strada, che costringe le sue donna incinte ad ingoiare bozzoli di cocaina fa posto al Messico in cui nasce il cartello di Guadalajara per mano di Felix, aiutato dal fratello Rafa/Tenoch Huerta.
Parte da qui Narcos: Messico, dal punto in cui la droga era gestita da un gruppo di contadini coltivatori e commercianti senza una vera e propria organizzazione alle proprie spalle.
Narcos: Messico – un racconto che ha inizio per il desiderio di potere e riscatto
Fin dai primi episodi è chiaro, questa è una guerra, lunga, faticosa, che spezza le gambe; è un campo di battaglia in cui le morti non si contano più, in cui i legami, i rapporti diventano utili e necessari per avere la meglio sugli altri e poi, in un istante, dopo, perdono di valore perché non più utili né necessari. Non è una guerra di posizione, non ci sono dei confini netti tra i due schieramenti, tra buoni e cattivi. Sin dalle prime scene e dalle prime parole del narratore, si svela la verità: il narcotraffico nello Stato dell’America centrale si fonda su un inquietante e perverso rapporto tra politici, istituzioni, agenti della polizia e narcotrafficanti, i più spietati e i più implacabili. Il narcotrafficante è sodale del ministro, del capo della polizia, del Politico più influente, viene invitato al matrimonio della figlia e l’Istituzione conosce, protegge e sostiene chi produce la polvere bianca. Tutto è ancor più difficile e più oscuro di così in Narcos: Messico, tutto sembra contorcersi, stringersi e “rilasciarsi” intorno ai due protagonisti di questa stagione.
Guadagnare coltivando e vendendo marijuana in tutto il mondo, questo vuole fare Felix Gallardo, o almeno questo è il suo intento all’inizio, e lo può fare solo grazie all’ottimo lavoro di Rafa, capace di coltivare un’erba in grado di occupare ancora meno spazio e di realizzare una vasta piantagione dove sembrava impossibile farlo. Felix è un ex poliziotto e proprio per questo è abile nelle trattative e proprio questa sua dote lo renderà re del narcotraffico. Dall’altro angolo del ring c’è Kiki Camerena, l’agente ligio al dovere, desideroso di fare, di combattere il narcotraffico, di mettere tutto se stesso nella guerra contro la droga che nessuno sembra voler sconfiggere.
I due uomini, l’uno il “buono”, l’altro il “cattivo”, sulla carta lontani anni luce sono invece molto più simili di quanto si possa immaginare. Nei primi episodi la loro storia va di pari passo, entrambi vivono dei loro desideri, Felix creare un impero, Kiki rompere il “cerchio magico” della droga, entrambi a poco a poco combattono le loro battaglie, inciampando, cadendo, raggiungendo piccoli traguardi.
Come Kiki sogna di togliersi di dosso la mediocrità che lo aveva caratterizzato, vuole avere anch’egli il suo momento e, quando arriva a Guadalajara, è disposto a tutto, rimanendo comunque integro, pur di catturare Gallardo, così Felix vuole sbaragliare i rivali, mettere da parte il commercio d’erba (e quindi il suo stesso fratello) e concentrarsi con tutto se stesso in quello della cocaina.
Narcos: Messico – Felix e Kiki tra hybris e coraggio
Felix come chi pecca di hybris cade da quell’Olimpo a cui era faticosamente arrivato, facendosi strada tra i tanti mediocri, tra politici rampanti, faccendieri e uomini d’armi con le mani sporche di raccomandazioni e sangue, tradendo gli amici, il fratello, tutti coloro che c’erano stati quando commerciavano “solo” erba, si trova da solo, senza moglie, senza figli, a cercare di salvare il salvabile, cercando rifugio e scappando. Dal canto suo Kiki, come Arete, simbolo di coraggio, è impavido, non si tira indietro, continua con i suoi colleghi a farsi strada tra muri di gomma e burocrazie costruite ad hoc, piegate per non danneggiare, fermare, mettere dietro le sbarre Gallardo.
Proprio a metà di questo percorso di “eroica normalità” le strade dei due sembrano non camminare più parallele: Felix continua in solitaria, completamente preso da quella ostinata ricerca di ricchezza, potere e successo – tutto era iniziato per garantire una vita alla sua famiglia -, mette tutto in discussione (“sono cambiato” dice alla moglie e la invita a tornare al loro paese senza di lui perché ormai queste sono la sua casa e la sua vita), tra parentesi (i rapporti, le amicizie, chi lo ha aiutato e chi, pro domo sua, lo ha agevolato), rimanendo “tragicamente” ed inevitabilmente solo come quel quadro, comprato da una gallerista, sua amante – che rappresenta un uomo piegato su se stesso, dolente e pensieroso – ma in una eburnea torre d’avorio.
Dall’altra parte c’è Kiki pieno della sua missione, attorniato dai suoi colleghi e dall’amata moglie, una donna ricolma d’amore e tutta d’un pezzo anche nel dolore, nello strazio, nel buio; il suo è un percorso che arricchisce il suo personaggio da “uomo da scrivania” a miglior uomo della Dea.
Attorno a questi due personaggi c’è un mondo corrotto e corruttibile, straziato e straziante, che, come accade ad esempio in Gomorra – La serie, si nasconde dietro a ricchezza, bellezza, lussi sfrenati che celano quel cuore putrido, avvizzito, asfittico. Qui non possono che esistere leggi che proteggono chi dovrebbe essere punito, ministri che sono al fianco dei criminali, forze armate che fanno scudo a chi spaccia, uccide ma comunque ha in mano il potere.
Narcos: Messico – una serie che non ha perso il suo smalto
La serie con ritmo coinvolgente, dialoghi senza censure e violenza senza partito, è “mordace” come chi tradisce, chi fa le scarpe, chi umilia, chi fa il delatore pur di salvarsi, abietta come il narcotrafficante che si arricchisce mietendo morti, come i politici di turno, i faccendieri, gli uomini di legge che svendono se stessi e quei principi di cui dovrebbero essere umili servi, affascinante e “rozza” come il male che permea e pervade ogni cosa, oscura come è solo la corruzione più bieca di chi dovrebbe far rispettare le leggi ma invece protegge i criminali. Sa essere però anche tesa, intima e commovente perché i protagonisti soffrono, si disperano e si sentono umiliati e derisi e l’occhio seriale si avvicina al corpo, ai volti dei suoi (anti)eroi, ai poliziotti come ai narcotrafficanti cercando di mostrarli più umani (Kiki e la moglie, colti nella loro quotidianità, l’ultimo coito disperato di Felix e la sua consorte) e il risultato è renderli personaggi di un’epica del “fine pena mai”.
Narcos: Messico risulta riuscita sia nelle prime puntate della stagione, una sorta di capoeira che vede scontrarsi due uomini spinti dalla stessa bramosia di potere, sia nelle ultime in cui invece il cappio intorno ai personaggi, da una parte Felix, dall’altra Kiki, si fa sempre più stretto e La tela di Carlotta, quella del libro per bambini, intrappola la sua preda ma è strumento di fuga per chi sa usarla. Appare chiaro dunque che la forza di questa serie non stia tanto in Escobar, nel cartello di Medellìn, ma nella serie stessa, capace di raccontare un mondo, dimostrandosi ancora una volta un’obiettiva narrazione senza sconti di un sistema, di una storia – che come dice la voce narrante nei primi minuti “non finisce bene” – e di una guerra che continua indisturbata ancora oggi.