Non mi lasciare: recensione della prima puntata della fiction con Vittoria Puccini
La prima fiction Rai del 2022 debutta in prima serata su Rai 1 a partire dal 10 gennaio: Non mi lasciare è una storia di cruda realtà mescolata a drammi psicologici non interiorizzati.
Argomenti tabù, temi affossati nell’oscurità dell’omertà e dell’orrore, vite spezzate dai ricordi di un passato che riemerge prepotentemente dalle pieghe del tempo: questo e molto altro è Non mi lasciare, la prima fiction Rai del 2022, in onda in prima serata su Rai 1 dal 10 gennaio 2022 per un totale di 8 episodi suddivisi in quattro serate.
Questioni scottanti vengono affrontate pubblicamente dalla narrazione di questa crime story investigativa, che coniuga un tema molto delicato e attualissimo come la pedopornografia e il rapimento di minori e quella che sembra essere un’avvincente storia psicologica che vede protagonisti Vittoria Puccini, Alessandro Roia e Sarah Felberbaum. La serie, sceneggiata da Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli e diretta da Ciro Visco, è una collaborazione Rai Fiction e Papermoon ed è una dei pochi esempi seriali italiani ad essere ambientata quasi interamente a Venezia. La città lagunare sembra essere non solo lo sfondo ambientale e paesaggistico della serie, ma addirittura una protagonista in toto, con le sue vibranti atmosfere sognanti e al contempo ferale, amplificate ancora di più dal fatto che le riprese sono state effettuate durante il lockdown.
Non mi lasciare: come viene affrontata la pedopornografia nella fiction?
La prima puntata della fiction trasporta immediatamente nel vivo della questione diegetica che si svilupperà nelle restanti puntate: il corpo di un bambino viene ritrovato nel fondo della laguna di Venezia, orma privo di vita. Da Roma arriva ad indagare un’agente del CNCPO, Elena Zonin, veneziana di nascita, romana di acquisizione. Qui ritrova un suo amico di infanzia, Daniele Vianello, che nel frattempo è diventato vice questore del dipartimento di polizia locale, a cui era legata sentimentalmente da ragazza. Elena è scappata da Venezia inspiegabilmente quando aveva 18 anni, senza dire nulla a nessuno, per via di traumi e problematiche che non vuole rivelare, ma che sembrano incidere prepotentemente sulla sua vita e quella degli altri. Le delicatissime indagini su presunti rapimenti e uccisioni seriali di bambini si mescolano con le sue problematiche interiori, definendo una storia intricata sia a livello simbolico che psicologico.
La narrazione si dischiude fin dalle prime battute e inquadrature su un argomento difficilmente affermato nella servilità televisiva, ma che merita di sicuro un posto di spicco nell’attualità di cronaca: la pedopornografia infantile, amplificata da fenomeni di adescamento online, è un dato di fatto da molti ignorato e poco affrontato nella quotidianità. Questo perché molto spesso gli eventi afferenti a questa tipologia di reato sono perpetrati nei confronti di bambini cosiddetti “emarginati e invisibili”, figli di immigrati non regolari che hanno paura di ripercussioni, bambini che scappano da case famiglia o che i genitori pensano si siano semplicemente allontanati da casa. Non mi lasciare da questo punto di vista addita l’omertà sociale e porta in luce una piaga civile che deve essere attualizzata anche – e forse soprattutto – attraverso forme di cinematografia e serialità. La presenza di un caso di cronaca è l’incipit per iniziare a scavare nei meandri del dark web, dove vengono adescati questi bambini, e a cui Elena Zonin, agente del CNCPO fa riferimento costante per monitorare indizi relativi alle indagini.
Una storia di drammi infantili non interiorizzati
La componente psicologica di cui è pregna la serie si esplicita non solo attraverso la materia trattata a livello investigativo (un argomento sociale che affonda le sue radici nei traumi vissuti dai bambini e dalle conseguenze che li portano ad essere adescati dai pedofili, dunque bullismo, maltrattamenti in famiglia, disinteresse), ma anche nella side story che riguarda il personaggio interpretato da Vittoria Puccini: con la sua nota recitazione meditata e pacata, intensa, decisa, il personaggio di Elena viene strutturato per essere un archetipo frammentato della vera se stessa, con una dimensione interiore velata dalla caparbietà esteriore e avvolta da traumi infantili che la fanno associare probabilmente più ai carnefici dei reati che alle piccole vittime. Sarà per questo che Elena riesce ad empatizzare con i sospettati, e addirittura ha una acutezza talmente sviluppata da portarla a scontrarsi con i suoi superiori che preferirebbero additare un colpevole “feticcio”, piuttosto che trovare la verità celata nel fondo delle apparenze.
La messa in scena di una città d’arte come Venezia rende sempre una narrazione visuale importante dal punto di vista estetico: se da una parte questo rappresenta un vantaggio per il lato artistico e scenografico, dall’altro potrebbe inglobare la narrazione proiettandola in una dimensione ovattata e spazialmente incongruente rispetto alla centralità dell’ambientazione. Venezia viene considerata dagli stessi autori una vera e propria protagonista, al pari di Vittoria Puccini e Alessandro Roia, rappresentando non solo il campo su cui le indagini vengono portate avanti, ma anche metaforicamente il luogo in cui si esplicitano i drammi e i traumi interiori di Elena. Uno svantaggio letterario che però viene mitigato dalla pacatezza del montaggio, per nulla eccessivo o virtuosistico, che dimostra ancora una volta di voler concentrare l’attenzione dell’obiettivo della macchina da presa – e di riflesso dello spettatore – verso le bellezze artistiche della città lagunare.
Non mi lasciare si presenta così con un incipit curiosamente deciso, mostrando delle piccole imperfezioni di ritmo diegetico che potrebbero appesantire la struttura se non esplicitate e sovvertite in futuro, ma che tutto sommato riesce a incuriosire se non altro per la carica incisiva di attualità e psicologismo romantico.