Normal People: recensione della serie tv basata sul romanzo di Sally Rooney
Salutato con grande – forse eccessivo – entusiasmo da critici e spettatori, Normal People, l’adattamento dell’omonimo secondo romanzo della scrittrice irlandese Sally Rooney, segue Marianne e Connell negli anni che segnano il passaggio dalla scuola superiore al college, esplorando i reciproci inseguimenti e distanziamenti nella stagione in cui l’adolescenza sconfina nell’età adulta. Figlia del privilegio alto-borghese lei, figlio della working class lui (la cui madre è la donna delle pulizie della famiglia di lei), si piacciono, si desiderano e si amano con una passione famelica e una sintonia fisica che non riescono a ritrovare in nessun altro rapporto, ma alla felicità si frappone prima la paura del giudizio altrui – Marianne a scuola è considerata un’altezzosa intrattabile, campionessa in sarcasmo da autodifesa – e la malattia mentale poi.
Lasciata la cittadina di provincia per Dublino, Connell si sente privo di punti di riferimento e non riesce a venire a patti con la destabilizzazione che ne consegue, lasciandosi paralizzare da una depressione che ha radici profonde e sepolte; Marianne, al contrario, nella capitale conquista una nuova apparente sicurezza, non riuscendo però a disattivare la pulsione a degradarsi, a mortificare il suo corpo per mantenere intatta un’identità che si è plasmata sulla violenza, psicologica ancor prima che fisica. La normalità che il titolo invoca piuttosto che evocare è l’aspirazione ultima di un giovane uomo e di una giovane donna, che si accontenterebbero di poter entrare semplicemente nella vita, di sbarazzarsi per sempre della sensazione di esserne estranei, di annodare la percezione alla parola, di rabberciare la trama smagliata di una quotidianità distonica e spesso afasica rispetto a emozioni tanto soverchianti quanto indecifrabili e soprattutto indicibili.
Normal People: il desiderio dei corpi e la difficoltà delle parole
I registi Leonard Abrahamson (che dirige i primi sei episodi) e Hettie Macdonald (che dirige gli ultimi sei) riescono pienamente a rappresentare la frustrazione derivante dall’incomunicabilità, la difficoltà a verbalizzare le emozioni e a dare consistenza ai sentimenti dei due giovani protagonisti, esaltando la sensualità della loro relazione e, per contrasto, sincopando i loro dialoghi perlopiù sospirosi. Chi guarda non può che sospirare insieme ai personaggi, non può che interiorizzare la stessa sospensione che congela le loro vite, che si riempiono e si svuotano a intermittenza, che guadagnano e perdono contatto con una rapsodicità snervante e compressa di rabbia. Uno degli aspetti notevoli di questa serie è, infatti, proprio il modo in cui mostra la sessualità, con una tenerezza e una verità che s’impongono allo sguardo dello spettatore e attraverso i corpi, che surrogano e ‘sintomatizzano’ la funzione di significazione che spetterebbe alle parole, comunicano l’impossibilità di vivere senza l’altro, di accogliere il godimento senza senso che consegue alla sostituzione di un corpo con un altro, perché nessun corpo è uguale a un altro e l’imperativo del desiderio è categorico ed esclusivo quanto un dettato etico su misura.
Normal People: una riflessione sull’essenzialità della relazione come elemento identitario
La vita non esiste se non è attraversata e abitata dall’altro, dal significativo altro che ciascuno cerca e che qualcuno trova: Normal People s’inserisce proprio in questo spazio di ricerca e ne scandaglia tutti gli incendi e gli incidenti nonché le interruzioni. Lo fa con una grazia malinconica che, però, spesso si appiattisce, smarrisce il ritmo, isola struggimenti altissimi e vertigini emotive in un dipanarsi perlopiù monotono. Si tratta di un contrappunto funzionale a rappresentare mimeticamente le altalene sperimentate dagli stessi protagonisti, riducendo a sporadici i momenti intensi e a costanti quelli dalla cadenza uniforme e tediosa. Tuttavia, per un’opera che è figlia di un romanzo, la stucchevolezza in cui si avvitano certi dialoghi senza sbocco risulta stonata e avrebbe guadagnato da un taglio più deciso, da una più risoluta asciugatura. L’insistenza a tratti didascalica con cui i personaggi si mostrano affezionati a ciò che li fa soffrire, con cui feticizzano le loro ferite, è contro-economica e più ‘libresca’ che drammatica. Forse sarebbe stato il caso, nel passaggio da un linguaggio a un altro, di riscrivere più coraggiosamente, e, del resto, l’adattamento si dimostra fin troppo aderente. Il binge-watching è, di certo, reso impossibile dall’andamento a passo calmierato che mal s’accorda alla fruizione compulsiva (e ciò non è di certo un male!).
Normal People: la caratterizzazione e l’interpretazione dei protagonisti sono il punto di forza dello show
Un plauso va, in ogni caso, alla caratterizzazione e all’interpretazione dei personaggi, protagonisti assoluti insieme a un’Irlanda verde-grigio dagli accenti elegiaci, di un’alchimia amorosa rivissuta nella finzione con uno sbalorditiva autenticità da attori a dir poco eccezionali. Tra i due, a differenza del libro, qui è forse Connell a spiccare. In un tempo in cui l’attenzione è tutta rivolta alla scrittura di personaggi femminili, conforta incontrare una figura maschile delineata con tale delicatezza, sfaccettata nella dolcezza e nella fragilità, nei numerosi punti di luce di una virilità protettiva ma non paternalistica, complice e mai abusante, vulnerabile ma comunque coraggiosa nell’affrontare i suoi dissesti e i suoi buchi neri, le voragini aperte dall’assenza di modelli, dal crollo del mito del maschio e dall’assenza dei padri. Paul Mescal, di una bravura priva di virtuosismi o affettazioni, colpisce per la sua capacità di fare di un personaggio straordinariamente scritto un personaggio straordinariamente interpretato e ‘animato’, puntualmente nobilitato da registri interpretativi sottilissimi e da una sensibilità non comune.