Onimusha: recensione della serie TV Netflix
La serie Netflix, supervisionata da Miike Takashi, tratta dal brand videoludico Capcom
Distribuita su Netflix a partire dal 2 novembre 2023, Onimusha, per la regia di Sugai Shinya, è una serie anime di otto episodi, che trae spunto da un amato brand videoludico della Capcom, diffuso principalmente sui sistemi Playstation.
I videogame permettono al giocatore di impersonare un samurai del periodo Sengoku (1477-1576), l’era degli Stati combattenti che precedette l’unificazione del Giappone sotto lo shogunato Tokugawa. Il primo capitolo, Onimusha:Warlords (2001), vede il samurai in questione, Samanosuke, affrontare dei demoni, i Genma, con l’aiuto di un clan di demoni rivali, gli Oni, che gli garantiscono un potere speciale in grado di intrappolare le anime dei Genma. Il gioco si svolge in scenari 3D non renderizzati, quindi a quadri fissi e tendenzialmente presenta un gameplay simile a quello di un Resident Evil ambientato nel Giappone feudale. Gli altri capitoli del brand seguono la stessa impostazione, usufruendo però di aggiornamenti grafici e apportando qualche modifica a personaggi, situazioni e gameplay.
La serie Netflix, che vede come supervisore creativo e alla regia, Miike Takashi, decide saggiamente di non adattare quasi nulla di tutto ciò. L’anime si situa subito dopo l’era Sengoku, agli inizi del periodo Edo (1603 – 1868) e fa di Miyamoto Musashi, il samurai forse più famoso della storia giapponese, il proprio protagonista. Seguendo una costruzione simile a quella dei chambara, i film di cappa e spada degli anni cinquanta e sessanta, inserisce Musashi in un gruppo formato da altri cinque samurai e un monaco – sette in tutto, come quelli resi noti da Kurosawa – che devono collaborare per risolvere un problema in un villaggio di contadini, conteso fra clan rivali. La lore videoludica viene inserita nel momento in cui i protagonisti scoprono che Iemon, un samurai rinnegato, ha evocato i Genma per impossessarsi dei giacimenti d’oro adiacenti al villaggio, trasformandone gli abitanti in zombie, con l’unica eccezione di una ragazzina. Musashi allora indossa il guanto Oni custodito dal monaco, che gli dona abilità sovrannaturali e gli permette di prendere le anime dei Genma
Onimusha. Fra il cinema di Miike e i Chambara
Più che una serie, Onimusha appare come un lungo film suddiviso in episodi. La trama orizzontale è costruita su tre atti, dipanati lungo la narrazione complessiva, all’interno dei quali sono inseriti dei flashback. La sceneggiatura fa molto affidamento a dialoghi essenziali, che rimandano spesso a concetti tradizionali del buddismo zen, della filosofia delle arti marziali e della storia del Giappone. Le scene d’azione sono poche, per un prodotto del genere, ma ottimamente coreografate e animate. Soprattutto in quelle finali, si può riscontrare una messa in scena debitrice dell’approccio videoludico, in cui si passa da un piano dell’azione a uno adiacente, attraverso movimenti di macchina estremi che seguono cadute e salti dei personaggi, così da tenere sempre in scena, fra colate d’oro fuso e flussi di energia demoniaca, i protagonisti dell’azione. Gli immancabili duelli fra samurai invece, anche quando si tratta di samurai-mostri, sono rappresentati facendo ricorso all’ellisse e al dettaglio poetico, oltre che all’uso di angoli di ripresa arditi, in omaggio a capolavori come Harakiri (Kobayashi, 1962).
Insomma questo prodotto sembra avere due anime, una più classica e una palesemente ludica e postmoderna. Onimusha infatti segue un percorso estetico che parte dal reenactment di uno dei generi fondanti del cinema nipponico, per poi approdare a un potpourri orrifico-fantastico, che spesso chiama in causa anche la tematica del body horror. Un’operazione tipica del cinema di Miike, palese in lavori come L’immortale (2017), dove, tra l’altro, compare un rapporto fra samurai invincibile e bambina in cerca di aiuto/vendetta simile a quello presente nell’anime. O ancora in Izo (2004), in cui il regista ha mixato in un cocktail folle, volto a usare moduli temporali sovrapposti e frammentati, la storia di un guerriero realmente esistito con un fantasy, fatto di demoni e viaggi temporali. In 13 assassini (2010), infine, Miike ha celebrato, alla sua maniera nichilista, proprio il capolavoro del genere, I sette samurai (1954) di Kurosawa.
L’immagine fantasmatica di Mifune Toshirō
Onimusha, pur situandosi nella tradizione di anime jidaigeki (di ambientazione feudale) ibridati con le storie di fantasmi tradizionali, come il Dororo (1967) di Tezuka, si rifà principalmente a questa linea poetica di Miike, volta a riscrivere il mito del bushi. Per questo motivo Sugai evita il character design fortemente stilizzato e semplificato degli anime più tradizionali e invece si affida a uno stile di disegno realistico, che si ispira a fisionomie e volti classici del cinema chambara. Soprattutto attribuisce a Musashi le fattezze dell’attore feticcio di Kurosawa, Mifune Toshirō. Mifune aveva interpretato Musashi in Miyamoto Musashi (1954, Inagaki), eppure Miike e il regista scelgono di ricostruire il loro protagonista non sull’immagine dell’attore in quel film, ma sulla sua interpretazione del ronin Sanjuro, nei due film di Kurosawa, La sfida del samurai (1961) e Sanjuro (1962).
L’anime quindi esibisce un cortocircuito dell’immaginario tradizionale giapponese, dalle forti valenze simboliche. Musashi, in patria, è infatti un personaggio esemplare e la sua vita di spadaccino imbattibile è spesso ammantata di leggenda, tanto che è ancora difficile distinguere tra personaggio storico e sua ricodificazione mitica. Gli autori, allora, riscrivendo un simile protagonista, attraverso l’immagine di un ulteriore mito dell’immaginario filmico, cioè il ronin eroico per eccellenza, Sanjuro, mettono in scena un processo di riattivazione secondaria del mito originario di Musashi. Confermano cioè lo statuto leggendario/eroico del personaggio, a discapito della sua realtà storica di guerriero brutale e cinico, legandolo all’immagine fantasmatica del ronin multimediale. Eroe che, ça va sans dire, è frutto solo della macchina mitopoietica dell’industria dello spettacolo nipponico e non certo della realtà storica.
Infine però – e qui torniamo all’importanza dell’impronta di Miike sul progetto – il dispositivo di animazione videoludica che è Onimusha, contraddice questa stessa mitologia, attraverso una cifra narrativa, che dal sesto episodio cambia completamente tono, accentuando gli aspetti fantasy/action adiscapito di quelli filosofici e cambiando la traiettoria del viaggio eroico compiuto da Musashi. Quest’ultimo infatti si rivela essere imprigionato nella spirale di caos e violenza, priva di redenzione – ma non di umanità – tipica degli antieroi miikiani, in un tempo ciclico dove è costretto a ripetere in eterno la sua ultima battaglia. Alla luce di una simile interpretazione del prodotto, si comprende perché gli autori abbiano scelto di approfondire la storia dei vari comprimari, ma non quella di Musashi. Lo spadaccino leggendario è un’immagine cristallizzata del Giappone. Un’immagine idealizzata dei suoi valori – fantasmatica appunto come quella di Mifune – che trovano la loro rappresentazione simbolico/mediatica più conosciuta nel bushidō. Tale immagine, come sempre nel cinema di Miike, è condannata a essere demistificata, scomposta e ricomposta in un’inno al vuoto/nulla (Mu) e alla distruzione.
Onimusha: valutazione e conclusione
Onimusha in definitiva rappresenta un’operazione estetica davvero interessante. Grazie a delle animazioni fluide, che mescolano sapientemente fondali splendidamente disegnati a mano con personaggi in cel-shading e motion capture, si configura come una visione spettacolare e avvincente. Certo, i puristi della lore videoludica potrebbero rimanere delusi, così come chi vorrebbe assistere a un tripudio di scene action ogni tre minuti. D’altronde non si può sempre accontentare tutti e, in questo caso, la perdita di una nicchia di mercato è ripagata da una coerenza estetica, che rende l’opera una raffinata riflessione/variazione postmoderna del jidaigeki/chambara nello stile di Miike.
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