Pacific Rim: La zona oscura: recensione dello spin-off animato di Netflix
Disponibile dal 4 marzo su Netflix, Pacific Rim: La zona oscura è una serie matura e graficamente d'effetto.
È arrivata su Netflix Pacific Rim: La zona oscura, la serie spin-off animata del franchise di Pacific Rim. Greg Johnson e Craig Kyle hanno co-ideato la serie per la Legendary Television in collaborazione con il famoso studio Polygon Pictures che si è occupato dell’animazione. I sette episodi sono stati diretti da Masayuki Uemoto, Susumu Sugai and Takeshi Iwata. La guerra tra kaiju e jeager si apre all’universo espanso in un prodotto ben realizzato nato dal matrimonio tra Giappone e Stati Uniti.
Pacific Rim: La zona oscura, fratello e sorella armati contro i kaiju
Australia, il continente è completamente devasto dal passo pesante dei Kaiju. Le forze armate hanno evacuato gran parte della popolazione, e coloro che sono rimasti indietro devono sopravvivere con l’ombra dei giganti mostri alle spalle. Taylor e Hyley Travis sono due giovani piloti di jeager cresciuti orfani nelle Wastelands. I loro genitori, entrambi piloti, sono scomparsi con il loro mezzo alla ricerca di aiuti. I due ragazzi vivono tranquilli nella loro comunità, finché un giorno non trovano uno jeager d’addestramento e la loro vita cambierà radicalmente. Tra mostri indistruttibili, criminali incalliti e città abbandonate, i Travis dovranno crescere in fretta o essere uccisi.
Pacific Rim ritorna alla sua forma ispirante, quella dell’anime
Il Pacific Rim di Guillermo del Toro, quanto il sequel Pacific Rim: La rivolta, trovavano il loro punto di ancoraggio nell’iconica produzione nipponica di genere, fatta di mostri e robot giganti. Il primo capitolo vedeva lo scontro metaforico tra Godzilla e Gundam, in un film dall’anima tutta americana. Ed è interessante osservare come Pacific Rim: La zona oscura ritorni proprio a quella forma da cui ha tratto ispirazione: l’animazione. Si potrebbe affermare che il percorso del franchise è circolare, dove l’origine è anche la fine. La serie è infatti fortemente legata al modello standard degli anime, dove un orfano (o più) per mezzo di macchine stupefacenti intraprende un difficile viaggio di formazione. Ma è l’incontro tra due realtà differenti a dare nuova forma al racconto; come già avveniva nei film. Pacific Rim: La zona oscura è americano nei dialoghi e nelle inquadrature. Ma è nella forma e nella scrittura che incontra il modello nipponico. L’animazione della serie è stata affidata infatti a quel Polygon Pictures ideatore di Blame!, Godzilla: Il pianeta dei mostri e la saga di Knights of Sidonia.
Pacific Rim: La zona oscura, il figlio bilingue di due mondi
Pacific Rim: La zona oscura è ciclico, figlio di due mondi e soprattutto ben realizzato. Al netto di una storia fin troppo conosciuta, la serie riesce comunque a trovare la propria identità, emancipandosi così da genitori ingombranti. Se vogliamo, è proprio la sua doppia anima a rendere questo possibile, perché la serie Netflix è un figlio bilingue capace di comunicare con entrambi i mondi. Mette d’accordo gli amanti degli anime e chi invece apprezza l’animazione ma non lo stampo giapponese. Non è il primo del suo genere, questo è verto, basti pensare a The Animatrix, ma è comunque un’ottima forma di intrattenimento. La storia abbraccia un bacino d’utenza molto ampio, passando da momenti di leggerezza ad alcuni di forte violenza, psicologica quanto fisica. Ed è questo a rendere interessante il prodotto, una maturità narrativa capace in alcune scene di regalare momenti davvero interessanti. Fin dal primo episodio si notano inquadrature della scuola americana, dagli zoom e primi piani su volti accigliati alle sequenze su mezzi di trasporto da war movie fino al montaggio. Pacific Rim: La zona oscura è un vero e proprio film in versione animata.
Il passaggio dall’eroica battaglia a una storia di sopravvivenza
Come dicevamo, Pacific Rim: La zona oscura rimane ancorato alla formula standard, sia nel background dei personaggi che visivamente. Un esempio è il look di Hayley, molto simile a quello di Winry Rockbell di Full Metal Alchemist. Non solo, il passato e la spietatezza di Mei ricordano la Mikasa de L’attacco dei giganti. Questi, come altri dettagli, fanno intuire come gli autori abbiano attinto da una fonte abbastanza frequentata. Detto questo, il connubio di nazionalità riesce comunque a convincere, intessendo con la saga madre più di un collegamento. Ma laddove i film, soprattutto il primo, si incentravano su una mitologia eroica da grandi discorsoni, Pacific Rim: La zona oscura tenta la strada dell’introspezione. La serie più che concentrarsi sugli scontri, che comunque ci sono, racconta una storia di difficoltà. Dall’alto si bassa al basso, a chi è rimasto a terra a vedersela con un mondo in rovina; ai piccoli che si fanno grandi. I sette episodi hanno più l’aria di un film diviso in capitoli, con un inizio e una fine. Una origin story che sappiamo proseguire con almeno due nuove stagioni che si spera sapranno alzare l’asticella.