Processi mediatici: recensione della miniserie Netflix
Processi mediatici è la miniserie procedurale che cerca di analizzare come i media e l'opinione pubblica hanno inciso su alcuni casi in tribunale.
La tv ha preso dalla realtà per costruire le proprie storie. Ospedali e sale di tribunale sono state spostate dalla tangibilità dei propri luoghi per essere poi trasposti e rimaneggiati a fini ricreativi, forgiando alcuni degli show e delle serie più appassionanti per il pubblico, rendendo la tv generalista un crocevia di sentimenti e relazioni basati su alcuni meccanismi provenienti direttamente dalla quotidianità. Uno scambio che ha finito per influenzare lo storytelling di racconti veri o dell’audiovisivo in maniera indifferenziata, colpendo per la facilità di far trasmigrare i sentimenti da un bacino di verità a uno di finzione e viceversa, stabilendo definitivamente i parametri di uno scambio continuo e, probabilmente, oramai indissolubile.
È ciò che è accaduto con l’ingresso nelle aule processuali delle telecamere, con l’attenzione ossessiva di un occhio costantemente acceso per riprendere le impurità di una parte di popolazione, mentre l’altra metà rimaneva seduta a casa a gustare le disavventure di vittime e accusati, assorbendone prove e testimonianze come risvolti e dialoghi delle più studiate soap opera. Il collegarsi strettamente e bilateralmente della verità con il proprio corrispettivo video mette in piedi la nuova produzione Netflix Processi Mediatici, un insieme di sei episodi che riportano a casi di successo rapportati all’opinione pubblica che li avvolse a loro tempo, ripercorrendone costruzione e sviluppi per la formazione di una serie che cerca di esporre l’influenza di un mezzo sulle sorti di persone, famiglie e comunità.
Processi mediatici – L’esibizione della verità in aula
Un invito interessante quello di approcciarsi a una sorta di analisi delle componenti di maggior presa che resero alcuni dei casi trattati un focolaio di notizie, speculazioni, oltraggi e luoghi comuni, che nella riflessione su quanta incidenza la moderna comunicazione può giocare sulla veicolazione di decisioni e appoggio popolare, mostra i vantaggi e gli svantaggi di una pratica come quella dell’esibizione in massa anche a discapito della dignità e della privacy di coloro coinvolti.
Se, dunque, gli obiettivi di Processi mediatici sono un chiaro tentativo di abbracciare uno spettro davvero espanso di cosa un omicidio o una frode o uno stupro può significare a livello di spettacolarizzazione e fruizione attraverso i media, è nella pratica del mettere assieme i suddetti casi a non trovare un’esca che possa fare da accumulatore di tutto ciò che viene rappresentato.
Processi mediatici – Una tesi che non raggiunge il proprio obiettivo
Per quanto televisione e giornali diventino parte integrante tanto della realtà dei casi, quanto della messa in mostra da parte della serie della loro pregnanza in attinenza con il processo trattato, l’assunto su cui va fondandosi il prodotto Netflix non trova un’omogeneità che possa far cogliere gli intenti principali allo spettatore, che potrà anche continuare a vedere gli episodi per un piacere che prescinde dalle motivazioni di base su cui viene creata la serie, ma di cui è difficile estrarre una tesi solida e unificatrice.
Procedendo di puntata in puntata, giungendo fino alla sesta e ultima visione – forse tra le più attinenti vista la figura controversa e quanto mai esposta come quella dell’ex governatore dell’Illinois Rod Blagojevich -, tutto ciò che è possibile apprendere dalla serie è l’importanza di saper raccontare una storia, cosa che Processi mediatici è in grado di fare, perdendo però un po’ della volontà paradigmatica di voler diventare un caso di studio, non arrivando, purtroppo, alla sufficienza. Una miniserie come tante simili che potrà forse catturare qualche appassionato di pratiche procedurali, televisive e non, ma che rimane talmente sul generale da non mantenere il punto sulla propria argomentazione.
Processi Mediatici è disponibile dall’11 maggio su Netflix.