Raised by Wolves – stagione 2: recensione finale della serie Sky
La seconda stagione di Raised by Wolves si inerpica tra religione e tecnologia, in un terreno più fantasioso di quello precedente, meno horror ma non per questo meno affascinante.
La prima stagione di Raised by Wolves ci aveva meravigliati, portandoci in un mondo alieno, a confine tra ragione e religione. Un possibile Eden che però adagio si era manifestato ostile e scomposto, graffiato nel profondo dagli stessi dilemmi terrestri e perciò tremendamente imperfetto, affranto fino al midollo dalle grandi domande che sconquassano l’umanità, dalla fede al concetto di maternità per raggiungere l’apice in quello dell’evoluzione e dell’involuzione umana.
Cosa significa infatti progredire? Se negli ultimi episodi della prima stagione della serie HBO prodotta da Ridley Scott questo verbo si lasciava accarezzare da altre sfumature, in questa seconda stagione, disponibile su Sky e NOW dal 15 aprile 2022, diviene centrale al pari dell’istinto di maternità e protezione che guida Madre (Amanda Collin).
Raised by Wolves: dove eravamo rimasti?
Prima di proseguire con l’analisi di Raised by Wolves 2, però, è bene fare un recap di quanto accaduto nel finale della scorsa stagione, in cui abbiamo fin da subito fatto la conoscenza degli androidi Madre e Padre, inviati sul pianeta Kepler22-b per fondare una colonia umana pacifista e tecnocratica. Le cose iniziano a complicarsi nel momento in cui i due robot vengono a contatto con un gruppo di mitraici, presenti sul pianeta per le loro stesse identiche ragioni: fondare una colonia umana, ma incentrata sulla fede in Sol. Idee distanti che entrano pian piano in collisione, introducendoci personaggi bizzarri quanto interessanti e ponendo le basi per un conflitto reale e su più livelli; una situazione che si palesa analoga a quella che gli umani credevano di essersi lasciati alle spalle correndo a bordo delle loro navicelle verso un nuovo pianeta. Ma davvero l’umanità è in grado di salvarsi? Veramente, giunti a tal grado di evoluzione, c’è un confine netto tra forme di vita organica e robot?
Di certo il serpente alieno partorito da Madre destabilizza organicamente e mentalmente ogni confine, convogliando l’istinto all’apice di ogni decisione, talvolta involontariamente. In questa seconda stagione l’autore della serie, Aaron Guzikowski, provvede ad articolare ulteriormente la particolarità di questo mondo, conferendogli una geografia a tratti fatale, di cui il mare acido rappresenta il lato più affascinante, tanto più se ad abitarlo vi sono creature che – da ciò che trapela – un tempo erano umane.
Un anello che collega la voglia di conoscenza alla collana inerente l’evoluzione della nostra specie e il divario tra quest’ultima e la tecnologia. Chi è meglio e chi ha maggior forza per sopravvivere?
Se c’è un dettaglio che rende Raised by Wolves una serie magnetica è che essa richiama prodotti come Alien e Blade Runner, raggiungendo al contempo, con disarmante disinvoltura, un livello più elevato. Questo mondo che è Kepler-22b resta sempre lontano da quello reale e conosciuto, ma più vicino a una dimensione a proposito della quale la finzione ha per ora solo fantasticato. Ecco allora che allo spettatore avvezzo alla fantascienza non turberà poi molto, non più, vedere androidi che si esprimono al pari degli umani e che addirittura si prendono cura dei figli meglio di genitori in carne e ossa, così come non li sconvolgerà il binomio tra fiducia e sfiducia nei confronti della tecnologia. Qui siamo, piuttosto, in un mondo che è andato così avanti da lasciar compenetrare tutti i livelli, aggiungendo alla fredda scienza una spruzzata di fantasia e affilando le sue armi con una giusta dose di religiosità.
Quello di Raised by Wolves 2 è un mondo nuovo, che sta nascendo nel momento stesso in cui lo vediamo per la prima volta e, come tutte le cose nuove, porta con sé uno strato del vecchio mondo e delle antiche abitudini, che è un modo nostalgico ed elementare per ereditare pregi e difetti. Per ripartire, cioè, mai davvero da zero, mai davvero puri.
La maternità: croce e delizia di ogni essere
Ma per rimanere ancora nel dedalo di suggestioni e fili narrativi che questa nuova stagione ci offre, è bene sottolineare innanzitutto la concezione della maternità, che vede un confronto effettivamente tra tre entità, al cui centro c’è sempre Madre, questa figura che – proprio come una genitrice – sarebbe in grado di uccidere pur di tutelare la sua famiglia. È lei il perno del nucleo familiare, lei che accudisce i figli, che si prodiga affinché imparino la differenza tra bene e male, imparino a convivere, a difendersi e ad amarsi. Ai suoi occhi passa in secondo piano persino il tradimento del piccolo Paul (Felix Jamieson), che ignaro si reca da Marcus per metterlo in guardia, rimanendo colpito dalla punizione inflittagli dalla Fiducia, l’enorme macchina che impartisce ordini agli umani. Madre non avrà pietà neanche di questo suo “fratello” pur di tutelare l’umanità.
In diretto confronto con lei si pone Sue (Niamh Algar): un’umana che non può avere figli e che nella prima stagione l’abbiamo vista rubare il volto di un’altra donna, appropriandosi automaticamente anche del figlio di lei (Paul). A tal proposito è interessante soffermarci sulla rappresentazione che Scott fa del genere femminile e della maternità. A chi conosce le sue opere cinematografiche non risulterà difficile il paragone tra queste due donne e la Ellen Ripley di Sigourney Weaver o la Elizabeth Shaw di Noomi Rapace. A unirle tutte questo filo spinato di maternità aliena che è rifiuto e responsabilità insieme, che è desiderio e paura, che è – sempre e comunque – aliena, cioè distante da ciò che dovrebbe essere la normalità.
A tali figure si unisce poi, nel finale di Raised by Wolves 2, Nonna (Selina Jones), un’androide mitraico ancora più antico di Madre e Padre, che sembra avere oscuri piani per l’umanità. La sua presenza nel calderone di una trama che risulta sempre più intrecciata e assurda è forse la normalità rispetto a quanto accade sul piano della fede, con Marcus (Travis Fimmel) ormai fin troppo immedesimatosi nella parte del profeta tanto da risultare delirante.
Raised by Wolves 2 e la spiegazione dell’intricata scena finale, tra croci rovesciate e follia
Si, perché una delle parole chiave di Raised by Wolves 2 è proprio il delirio d’onnipotenza che esplode nella follia, in tentativi repentini di accentrare il controllo nella mani di un singolo che, tuttavia, non riesce mai a imporsi agli occhi dello spettatore come il detentore della verità. Ogni personaggio resta folgorato dalle perplessità, trasmettendoci automaticamente il beneficio del dubbio. Esiste davvero Sol o si tratta di una voce aliena? Gli androidi sono tutti cattivi o di alcuni ci si può davvero fidare? Marcus è davvero il profeta prescelto che dice di essere o il suo è un modo come un altro per porsi a comando di un gruppo di persone? Non c’è una risposta univoca: questo pianeta e questa gente, lontanissima dalla normale quotidianità, riflette così bene la relatività che ci sommerge da annullarne le distanze.
La lettura latentemente cristologica, poi, provvede ad allontanare la narrazione dalle caratteristiche orrorifiche che avevano caratterizzato il primo ciclo di episodi per immetterci in un circolo vizioso di tensione e venerazione. La scena finale, quella in cui Marcus viene crocifisso a testa in giù, non può che richiamare alla memoria la Croce di San Pietro la quale, seppur rievochi una delle storie cristiane più devote, è ormai considerata soprattutto come uno dei maggiori simboli anti-cristiani per eccellenza. A sostegno di quest’ultima ipotesi va annotata la riflessione del coraggioso e perspicace Campion (Winta McGrath), il quale dice all’amico Paul di credere nell’esistenza di Sol, ma di pensare anche che si tratti di un dio cattivo.
Il finale della seconda stagione, così come tutti e otto gli episodi della serie HBO, si conferma contorto al pari del primo, ma non è l’unica cosa che possiamo confermare a proposito di Raised by Wolves: uno show che si palesa a tratti difficile da seguire a cuor leggero, ma pregno di spunti di riflessione mai scontati, superbo dal punto di vista tecnico e con un cast artistico capace di immedesimarsi pienamente nella parte, conferendo tridimensionalità a ogni personaggio, persino il più marginale.
La fotografia a tratti bluastra rilassa lo sguardo ma tiene all’erta il cervello: si palesano magneticamente i colori verdastri di un pianeta subdolo e quel mare così sconfinato e profondo che si fa portavoce silenzioso dell’ossimoro che invade l’intera opera seriale.
Una serie in sé particolare, forse a tratti complessa, ma di certo affascinante e imprevedibile. Una serie in cui verrebbe voglia di lanciarsi a capofitto, proprio come tra le acque di quel mare acido, se solo non si conoscesse la sua brutalità. Raised by Wolves 2 è quel mare che sa essere insieme letale e prorompente, che sa bruciare e rinfrescare. Per tutto questo – e molto più – ammalia.