Re:Mind: recensione della serie tv horror giapponese Netflix

Nonostante le ottime premesse, Re:Mind non riesce a emergere come sarebbe stato lecito aspettarsi

Una stanza misteriosa arredata in modo eccentrico e sottilmente inquietante. Undici studentesse, grandi amiche, che si risvegliano legate intorno a un tavolo senza ricordare come siano arrivate lì e perché. Un mistero da risolvere e un’infinita sequenza di segreti che vengono lentamente svelati nel corso della loro prigionia. Questi sono gli intriganti ingredienti di Re:Mind, la nuova serie thriller di Netflix che introduce il pubblico alla serialità giapponese con un prodotto forse più convincente sulla carta che nella sua effettiva forma finale.

Se da un lato infatti la serie può contare su un’estetica decisamente riuscita e avvolgente e un soggetto intrigante che strizza l’occhio a grandi modelli del passato come Agatha Christie (difficile non pensare a Dieci Piccoli Indiani mentre si segue la trama svelarsi poco a poco), Re:Mind fallisce nel momento in cui è costretta effettivamente a costruire una storia solida e credibile che fornisca le risposte necessarie a mantenere la sospensione dell’incredulità fino alla fine. Sono molte infatti le questioni rimaste irrisolte, alcune di fondamentale importanza, e le domande che non ottengono risposta e sono abilmente aggirate dalla sceneggiatura che, gliene si dà merito, riesce a identificare i punti più deboli della storia per non correre il rischio di trattarli e dimostrarne tutta l’inconsistenza di fondo. Il risultato è una miniserie godibile ma non esaltante, che lascia un amaro retrogusto di potenziale non realizzato in pieno e solleva più domande di quante sia in grado di rispondere.

Re:Mind: un copione decisamente ricco, ma troppo confuso

Il punto fondamentale di Re:Mind è la memoria, e soprattutto come il ricordo come esercizio morale di espiazione. Il complesso intreccio che costruisce la serie prende lentamente forma attraverso i ricordi delle undici protagoniste, che, legate al tavolo, non hanno altra scelta che ripercorrere gli avvenimenti degli ultimi mesi sperando di scoprire un colpevole e un movente per la loro prigionia. A emergere, invece, è un labirinto di segreti in cui tutte le ragazze sono coinvolte e che punta in un’unica direzione: Miho, leader indiscussa del gruppo scomparsa e presumibilmente morta qualche tempo prima dell’inizio della storia.

Re:Mind

Le ragazze prigioniere appena risvegliatesi nella stanza

Miho emerge fin da subito come il catalizzatore di tutte le store delle ragazze prigioniere, che, ispirate dal bizzarro ed eclettico arredamento della stanza, cominciano ad analizzare nei minimi dettagli la vita dell’amica e il rapporto che ognuno di loro ha avuto con lei. Il risultato è l’ottimo ritratto di un personaggio che, alla fine della serie, sembra di conoscere benissimo sebbene appaia solo in brevissimi flashback; il gioco di rivelazioni e versioni contrastanti riesce nell’impresa non solo di descrivere Miho, ma anche di farcela vedere in azione colmando i buchi che inevitabilmente emergono in una serie di racconti personali, e quindi parziali, su una persona. Si tratta del momento in cui la sceneggiatura dà il meglio di sé, intrecciando le parziali confessioni e le mezze verità delle protagoniste per dare vita a un personaggio sfuggente eppure del tutto credibile, immerso un un’ambiente e in una serie di eventi che ne condizionano in modo molto credibile la personalità e il comportamento.

Miho è il fulcro delle vite delle undici protagoniste, e attraverso i loro ricordi emerge una storia tutt’altro che edificante fatta di bullismo, un perverso desiderio di giustizia privata, prevaricazione fisica e psicologica e sentimenti repressi sotto una facciata di amichevole simpatia. Si tratta di un complesso e amaro intreccio di storie che delineano un insieme di rapporti sociali e umani deviato e malato, improntato sulla sottomissione e il controllo piuttosto che sulla positiva frequentazione tra pari. Man mano che la trama si svela ai nostri occhi diventa evidente come tutti abbiano un segreto, uno scheletro nell’armadio e un movente per mentire alle altre (e a noi) in un delicato incastro di mezze bugie e false verità che scricchiola più volte sotto il suo stesso peso. Se infatti la sceneggiatura riesce a costruire un ottimo ritratto di un personaggio che non si vede mai agire direttamente, al contrario risulta talvolta inutilmente contorta e confusa nel momento in cui le prigioniere raccontano i diversi episodi della loro vita, col rischio di nascondere così bene il codice per decifrare la verità da lasciare lo spettatore con più domande di quante ne avesse all’inizio di ogni episodio. Sebbene questo sia ovviamente il meccanismo tipico del thriller, la continua frustrazione del desiderio di conoscere la verità rischia alla lunga di svelare l’artificiosità dell’intreccio e smascherare la storia per quello che è: finzione.

Re:Mind

Due delle ragazze protagoniste della serie

La costruzione della storia procede a tappe forzate sviscerando un diverso argomento in ogni episodio, così da garantire una certa autoconclusività a tutte le puntate nonostante l’impronta fortemente orizzontale della serie. Questa rigida struttura riesce sicuramente a dare ordine a vicenda altrimenti decisamente complessa da ricostruire e raccontare, a costo però di una certa ripetitività dello schema di base, che si ripete sempre uguale nella maggior parte degli episodi creando un contrasto non del tutto piacevole tra una trama molto ricca di sorprese e una struttura narrativa fin troppo prevedibile.

La complessità dell’intreccio sembra essere riconosciuta anche dagli autori della serie, che verso la fine, come un’ammissione di colpa, permettono alle ragazze di fare qualcosa di inaudito: dire la verità. La parte finale dell’undicesimo episodio è dedicato a una lunga confessione in cui tutte le undici protagoniste ripercorrono ancora una volta tutti gli argomenti trattati nel corso della serie ammettendo finalmente tutta la verità sulla questione. Si tratta di un altro momento in cui sceneggiatura e regia esplode felicemente in un bellissimo climax, unendo tutti i punti disegnati dalle bugie raccontate precedentemente e fornendo, finalmente, quasi tutte le risposte necessarie per comprendere fino in fondo la storia e il ruolo che ogni personaggio vi ha giocato.

Re:Mind: un progetto ambizioso, ma riuscito solo in parte

A fronte di una scrittura molto ben strutturata e studiata sul piano della costruzione dell’intreccio, stupisce talvolta la banalità e l’inconsistenza dei semplici dialoghi, talvolta impossibili da prendere sul serio. Le reazioni delle ragazze non sono sempre coerenti con quello che sta accadendo loro, e le battute sembrano talvolta rifarsi a un modello manieristico piuttosto che a una ricerca di verosimiglianza.

A questo si aggiunge la caratterizzazione non eccezionale dei personaggi, che appaiono decisamente stereotipate per troppo tempo. Solo le ultime rimaste nella stanza, quando ormai la maggior parte delle prigioniere è stata misteriosamente fatta sparire, godono di un sufficiente approfondimento che va oltre al ruolo che hanno giocato nella vicenda per scavare nella loro personalità; troppo poco, e troppo tardi, per giudicare soddisfacente la galleria di personaggi femminili che ci viene proposta. Purtroppo nemmeno la recitazione riesce sempre a salvare i personaggi, dal momento che la maggior parte del cast si esibisce in interpretazioni decisamente sopra le righe e incredibilmente false.

Re:Mind

Miho (Miho Watanabe) in una scena della serie tv

Al contrario la regia si esibisce gloriosamente per movimentare la storia. A causa delle premesse su cui si fonda, Re:Mind è una serie molto statica e priva di azione; a intervenire è dunque la sapiente mano dei registi, che, aiutati da un montaggio molto serrato, riprende l’azione da una grandissima quantità e varietà di angoli e piani, spesso inconsueti e decisamente suggestivi, riuscendo a ottenere un pregevole risultato artistico mentre risolve il problema molto concreto di tenere desta l’attenzione dello spettatore. Grazie anche alla peculiare scenografia e a una buona fotografia, dunque, la serie ottiene un’efficace e valida identità estetica sempre più immersiva col procedere della storia.

Questo, però, non basta a salvare una serie che, a conti fatti, è un prodotto di intrattenimento piuttosto mediocre, che non riesce a mantenere tutte le altisonanti promesse fatte al suo esordio. Un peccato, soprattutto se si pensa che sarebbero bastate poche oculate modifiche al copione e al cast per rendere Re:Mind un thriller di ben altro spessore.

 

Regia - 3
Sceneggiatura - 1
Fotografia - 3
Recitazione - 1
Sonoro - 3
Emozione - 2

2.2

Tags: Netflix