Resident Evil: recensione della serie Netflix
La serie Netflix tratta dalla saga videoludica vuole incastrarsi tra i tasselli della continuity, senza però imporsi in modo efficace tra questi.
Parlare di trasposizioni (anche nel caso di Resident Evil) significa quasi sempre impantanarsi in un terreno minato di speculazioni, confronti e critiche violente rispetto al prodotto di partenza. Come se si volesse esorcizzare, attraverso decantate differenze strutturali, narrative o estetiche che siano, i problemi di fond legati a quella determinata opera tratta da un’altra matrice mediale.
Parlare delle trasposizioni cinematografiche di Resident Evil è stato poi da sempre un vortice di discussioni monodirezionali, incentrate sempre su problemi legati alla validità dell’opera originale confrontata con quella filmica. Netflix decide di riprovarci, questa volta adottando il formato seriale: Resident Evil, ideata da Andrew Dabb, vuole imporsi con i suoi 8 episodi nella continuity canonica della saga videoludica, assumendo nuovi personaggi e riproponendone di già noti, interpretati da Ella Balinska, Adeline Rudolph e Lance Reddick.
Resident Evil: quando la serie vorrebbe emulare il videogioco
La serie si dipana tra azioni improbabili ed inquadrature strutturate per dare l’impressione di voler ricreare quadri estetici che esulino dall’impostazione generale. Riprese dall’alto, illuminazione e colorazione estremamente soffuse e tendenti a tinte scarlatte per ricordare la visività della serie videoludica, inquadrature frontali che hanno l’intento di trasporre l’intensità emotiva e drammatica di chi, in un rimando metatestuale, guarda in macchina interpellando lo spettatore. Anche se non è propriamente idoneo parlare di rimandi videoludici per un prodotto audiovisivo che se ne discosta apertamente se non per riferimenti strutturali di trama e personaggi: se da una parte, infatti, è doveroso domandarsi perché ci si sia riferiti a questa opera seriale imprimendole il nome di una saga che – visti i numerosi flop filmici – a detta di molti dovrebbe rimanere ancorata alle sue origini interattive, dall’altro lato è importante valutarne le dinamiche concentrandosi sulla sua forma audiovisiva, scardinandola da questo insistente confronto con la materia prima da cui è stata generata.
Analizzandola quindi da un punto di vista peculiarmente produttivo e formale, la serie di Resident Evil si mostra scarna, senza una vera e propria enfasi autoriale che possa risollevarla nel corso dei suoi 8 episodi: prendendo quindi le distanze, dunque, dalla matrice videoludica e accostandola, al contrario, a quella più propriamente audiovisiva (facendo quindi riferimento ai titoli insoddisfacenti usciti al cinema dal 2002) si può notare come la strada battuta di mediocrità estetica e narrativa sia un leit motive che accumuna le due trasposizioni. La storia di Resident Evil – La serie si banalizza in un convulso tentativo di rendere entusiasmante le premesse iniziali: due adolescenti scoprono il segreto recondito legato al lavoro del padre (e che sia proprio quel Virus-T sperimentato da quella Umbrella Corporation che ha portato proprio a quella decimazione di massa causata dall’epidemia virale sembra essere un’incidenza non tanto rilevante), per ritrovarsi in un vortice di conseguenze disastrose che portano alla luce scomode verità che si pensavano ormai dimenticate.
Una messa in scena inconsistente nella serie Netflix
La storia di Jade e Billie Wesker si dipana tra due linee temporali differenti, ma apparentemente afferenti tra loro, costruendosi su due binari che vogliono coincidere, ma che per via della messa in scena diventano solamente confusi e convulsi. La linea temporale ambientata nel passato è più vicino ad una rappresentazione del disagio adolescenziale: New Raccoon City è un polo di edifici adibiti per ospitare i dipendenti dell’Umbrella, di cui il padre delle due ragazze, Albert Wesker, è uno dei maggiori esponenti. Le due si sentono inizialmente a disagio in questo luogo così favolistico e patinato, caratterizzato da un’illuminazione soffusa e onirica. Il dramma assume connotati purpurei nel momento in cui si ha lo sconfinamento nei laboratori dove sono rinchiusi gli animali su cui si testa l’agente patogeno, imprimendo nello spettatore quelle sensazioni che sono proprie della linea temporale del presente, in cui Jade, dopo 14 anni, sta effettuando ricerche sul campo riguardo il comportamento dei mutanti. Ma se queste due linee temporali e diegetiche vorrebbero avere un collegamento basato evidentemente sull’emozione e sull’interiorità della protagonista, lo stacco di montaggio risulta talmente repentino da essere inconcludente e destabilizzante, impedendo un’immersione lineare nella storia.
Tale impostazione sembra quindi destabilizzare la resa complessiva della serie, basata proprio su questo scambio continuo tra presente e passato, tanto da compromettere anche quelle che vorrebbero essere scene drammatiche o di particolare pathos, rendendole banali e inconcludenti, non riuscendo a creare un ponte tra i nuovi personaggi e le dinamiche che, a detta dei produttori, vogliono inserirsi in modo canonico nella continuity videoludica.
La resa grafica, la CGI per nulla implementata al tessuto visuale in live action, la resa del sangue e di quelle che dovrebbero essere le costanti tinte horror della serie, la performatività degli attori banale e soffusa, rendono la serie di Resident Evil più aderente al genere b-movie che al decantato rinnovamento di una serie cinematografica ormai inabissata.
La serie è disponibile su Netflix dal 14 luglio 2022.