Ripley: recensione della miniserie Netflix
La recensione della miniserie che il premio Oscar Steven Zaillian ha tratto dal romanzo del 1955 di Patricia Highsmith. Con Andrew Scott nel ruolo del protagonista che in passato fu di Alain Delon e Matt Damon. Dal 4 aprile 2024 su Netflix.
Ci sono opere letterarie che nemmeno lo scorrere del tempo riesce a scalfire, le cui pagine per un motivo o per un altro sono destinate a rimanere impresse nella memoria e nel immaginario comune. Tra queste c’è anche Il talento di Mr. Ripley, il romanzo del 1955 con cui Patricia Highsmith ha conquistato milioni di lettori in tutto il mondo. Un successo planetario, il suo, che oltre a consegnare all’immortalità il personaggio di Tom Ripley, su e intorno al quale la scrittrice statunitense ha costruito negli anni successivi una saga in cinque volumi, non poteva non attirare l’attenzione di produttori e registi delle diverse latitudini che lo hanno adattato in formati e per destinazioni differenti. Si è passati da uno degli episodi della serie Westinghouse Studio One del 1956 alla versione radiofonica per la BBC Radio 4 del 2009 e teatrale del 2010 in scena al Royal Theatre di Northampton, alle quali si vanno ad aggiungere due trasposizioni cinematografiche realizzate da René Clément (Delitto in pieno sole) e da Anthony Minghella (Il talento di Mr. Ripley), rispettivamente nel 1960 e nel 1999, dove a vestire i panni del protagonista c’erano Alain Delon e Matt Damon. Se poi decidessimo di allargare il cerchio all’intera saga, allora il numero di progetti audiovisivi aumenterebbe di altre due unità con i film che Wim Wenders nel 1997 e Liliana Cavani nel 2002 hanno tratto dal terzo dei cinque libri, ossia L’amico americano. L’interesse nei confronti dell’opera in questione però non si è ancora affievolito, al contrario si è rinvigorito ulteriormente tanto che a quasi settant’anni dalla pubblicazione la vicenda narrata e coloro che la popolano sono tornati sullo schermo grazie alla miniserie targata Netflix dal titolo Ripley, disponibile sulla piattaforma a stelle e strisce dal 4 aprile 2024.
In Ripley si consuma una fitta rete di inganni, manipolazioni, truffe ed efferati omicidi
La storia è arcinota, ma per chi non ne fosse a conoscenza per via di precedenti contatti con il romanzo o con uno o più dei suddetti adattamenti, un breve ripasso è utile oltre che doveroso. Siamo nella New York degli anni Sessanta, Tom Ripley viene assunto dal signor Greenleaf per riportare a casa il figlio Dickie che da tempo si è trasferito in Italia con la fidanzata Marge, per la precisione ad Atrani, un comune italiano della provincia di Salerno. Arrivato nel Belpaese però Tom rimane affascinato non solo dalla Costiera Amalfitana, da Roma e Venezia, ma anche da una realtà dalla quale diventa ossessionato al punto da creare una fitta rete di inganni, manipolazioni, truffe e omicidi. Per il narcisista Ripley questa si trasforma in un’opportunità di eludere un’esistenza meschina e banale e gustare lo stile di vita sfarzoso e indolente delle classi privilegiate. Ma a quale prezzo e in che modo questa machiavellica spirale di violenza, avidità e menzogna si consumerà lo lasciamo alla visione degli otto episodi (delle durata variabile che va dai 49 sino ai 70 minuti dell’ultimo) che vanno a comporre lo show.
Una storia di maschere e facciate che trova nel lavoro sulle atmosfere e nell’interpretazione di Andrew Scott i punti di forza. Il ritmo decelerato e compassato del racconto invece è l’anello debole
A firmarne la scrittura e la regia un premio Oscar del calibro di Steven Zaillian, autore tra gli altri dello script di Schindler’s List e della serie di HBO The Night Of, che per tratteggiare il nero cammino del protagonista si è preso tutti i tempi e gli spazi necessari e possibili, quelli normalmente in dotazione alla serialità. Il ché ha permesso di essere più fedele al romanzo rispetto ad esempio al film di Minghella, proprio grazie al maggior minutaggio a disposizione. Un lusso, questo, che coloro che prima di lui hanno messo le mani sulla matrice originale non hanno avuto. Ma se da una parte ciò ha consentito di sviluppare le singole one-lines e di riflesso la linea orizzontale nella sua interezza così come richiesto dalla fonte letteraria, entrando nel merito e mostrando le tappe della progressiva mutazione della complessa personalità del personaggio principale, dall’altra la dilazione dei tempi (anche morti) e il ritmo blando e decelerato del racconto appesantiscono e affaticano la fruizione di questa serie thriller psicologica dalle tinte crime e noir. Con e attraverso questo mix di generi, Zaillian costruisce una storia di maschere e facciate che trova nel lavoro nelle e sulle atmosfere, ma anche nella performance attoriale di un Andrew Scott efficacissimo nel ruolo di Ripley, il modo per accumulare, offrire e non disperdere la tensione e inquietudine.
La fotografia in bianco e nero di Roger Elswit e l’intera confezione estetico-formale catturano e ipnotizzano l’occhio dello spettatore
L’autore, pur rispettando e assecondando lo spirito della matrice originale, ne fa uno show ancora più cupo, contorto, morboso e sinistro, che trasporta il fruitore in un viaggio nei meandri della mente di una figura che nasconde un’oscurità raggelante dietro a due occhi nerissimi e perturbanti. In questo il Ripley di Scott ricorda il Norman Bates interpretato da Anthony Perkins in Psycho. A questo si va ad aggiungere un mix di riferimenti a modelli altri e alti che danno ulteriore spessore alla materia prima, permettendo allo spettatore di turno di scovare nel tessuto narrativo e nelle immagini il respiro dell’hardboiled chandleriano, le luci e le ombre geometriche del noir tedesco degli anni Quaranta, l’essenza del Neorealismo, gli intrecci dei gialli hitchcockiani ma anche il Federico Fellini de La dolce vita. Zaillian attinge a piene mani dai suddetti riferimenti per poi alimentare drammaturgicamente e visivamente la serie. Il tutto si riversa tanto nella scrittura quanto nella confezione estetico-formale, con quest’ultima che cattura l’occhio dello spettatore con una messa in scena e una messa in quadro di algida, ipnotica e a tratti inebriante bellezza, oltre che di grande cura fotografica che si estende alla componente scenografica, ai costumi, al trucco e parrucco. Il bianco e nero in cui Roger Elswit (premio Oscar per Il petroliere) immerge ogni fotogramma e cm della scena è molto di più di un fattore estetizzante, perché è un plus che rappresenta un vero e proprio valore aggiunto che aumenta esponenzialmente la potenza performativa dell’atto artistico.
Ripley: valutazione e conclusione
Steven Zaillian scrive e dirige una miniserie che mescola sapientemente thriller psicologico, crime e noir, utilizzando come base solida le pagine del romanzo Il talento di Mr. Ripley di Patricia Highsmith. Ne fa uno show cupo, contorto, morboso e sinistro, che trasporta il fruitore in un viaggio nei meandri della mente di un machiavellico manipolatore, qui interpretato da un convincente Andrew Scott. Il minutaggio messo a disposizione dalla serialità consente alla scrittura di ampliare il proprio raggio d’azione e di approfondire le one-lines e il disegno dei personaggi, ma al contempo il ritmo decelerato, compassato e dilatato del racconto rende la fruizione meno scorrevole e fluida. La vera differenza in Ripley la fa però la confezione estetico-formale, con il bianco e nero di Roger Elswit che rappresenta un plus che aumenta in maniera esponenziale l’impatto visivo delle immagini e della loro ipnotica composizione.