Sacred Games: recensione della serie tv indiana Netflix
Sacred games racconta il deteriorante rapporto tra preda e cacciatore, in un continuo scambio di ruoli.
L’India arriva su Netflix con una nuova serie originale e lo fa in grande stile, mettendo insieme molti dei volti noti del prolifico cinema indiano degli ultimi anni. Sacred games è infatti diretta da Vikramaditya Motwane e, soprattutto, da Anuragh Kashyap: ai più avvezzi al cinema del subcontinente già può venire in mente un’impressione abbastanza fedele di quello che la nuova serie prodotta da Netflix può essere. Insieme a Kashyap, astro affermato ma con ancora largo margine di crescita della nuova generazione di cineasti indiani, incontriamo qui anche Saif Ali Khan, stella di Bollywood, e Nawazuddin Siddiqui, da anni ormai eroe di film indipendente e habitué di tappeti rossi a partire da quello di Cannes. La serie è tratta dal romanzo thriller omonimo di Vikram Chandra e narra la storia di un giovane detective in cerca di affermazione professionale (Saif Ali Khan) che si trova quasi per caso sulle tracce di un criminale da tempo latitante, Ganesh Gaitonde interpretato da Siddiqui.
Sacred games racconta il deteriorante rapporto tra preda e cacciatore, in un continuo scambio di ruoli.
I toni, le cromie e lo spirito che caratterizzano le puntate di Sacred games sono quelle tipiche di Kashyap, pur edulcorate in virtù, con tutta probabilità, di un tentativo di avvicinarsi a un pubblico quanto più vasto possibile. Basti pensare alla forza musicale e cromatica dei suoi primi successi come Black Friday per rendersi conto dello scarto che si può trovare nella nuova serie, già dalle prime scene. Per rendere però l’idea di quali siano le possibilità di unire questo regista con una storia come questa basti citare l’esplosione (di successo di critica e pubblico) del dittico che costituisce Gangs of Wasseypur e, successivamente, di Raman Raghav 2.0. Il confronto, per quanto ostico possa sembrare, ha senso nell’ottica della storia narrata su Netflix, essendo questa almeno la terza volta in cui Kashyap si occupa del rapporto deteriorante che si instaura tra vittima e carnefice, tra una preda e il suo cacciatore, in un continuo scambio di ruoli e prospettive.
Da questo punto di vista, Netflix, inaspettatamente, diventa una sorta di freno alle immagini anche allucinate a cui Kashyap ci ha abituato sia come regista che come sceneggiatore. Senza dubbio, però, si nota la capacità di aver portato nel catalogo una produzione ad hoc che mette insieme nomi di grande spicco internazionale, tra cui, come già detto, Nawazzuddin Siddiqui, ormai definitivamente entrato a far parte tra i migliori interpreti indiani degli ultimi decenni (e le sue continue apparizioni in festival e premiazioni di tutto il mondo lo testimoniano). Sacred games è il risultato di una lunga gestazione, che raggiunge un buon livello di suspense e capacità di affiliazione e coinvolgimento degli spettatori, con inquadrature che cercano di mantenere un rapporto quasi simbiotico con i protagonisti della storia, ma che potrebbe arrivare a molto di più. La ricerca di adesione a canoni di racconti legal e crime dalla forte impronta occidentale ha forse un po’ privato Sacred games della possibilità di creare immagini di impatto come per esempio l’incipit di Raman Raghav 2.0, l’opera del regista che per molti versi è assimilabile a questa serie. A onor del vero, Vikramaditya Motwane è stato il primo regista coinvolto nel progetto e l’unione della sua voce potrebbe aver portato a una sorta di (inevitabile) mediazione tra prospettive così diverse. Secondo quanto riportato dalle cronache di produzione i due registi avrebbero girato in parallelo ma separatamente, rinforzando la dualità dei filoni narrativi mostrati e anche dell’unione artistica tra Kashyap e Siddiqui.