Savage Beauty: recensione della serie TV Netflix
Di serie come Savage Beauty ne abbiamo viste troppe. Ma su alcuni temi a noi inediti strettamente legati alla cultura del Sud Africa potrebbero valorizzare un prodotto (apparentemente) banale.
L’Africa è uno di quei continenti che grazie allo streaming si stanno guadagnando una certa notorietà. Prima dell’affermazione delle piattaforme digitali infatti, prodotti dal Sud Africa o dagli stati al di sopra e al di sotto del Deserto del Sahara erano perlopiù rarità a basso budget, realizzate da autori indipendenti nei confini del proprio paese e circolate attraverso manifestazioni appositamente dedicate come il Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina.
Per sdoganare quest’aura cinefila e non limitare la propria schiera a una platea ristretta di fruitori, l’antico continente ha dovuto sottostare ad alcuni cambiamenti, presentando al pubblico meno elitario titoli nati dalla messa a punto di un preciso compromesso: inserire nelle narrazioni, che siano lungometraggi o serialità, sia i valori arcaici predominanti nell’antica tradizione religioso/culturale della popolazione africana, sia alcune tematiche più contemporanee come la diversità e l’impegno sociale, inserendosi così nel pieno nella visione editoriale della grande N.
Savage Beauty, miniserie sudafricana in sei episodi disponibili dal 12 maggio 2022, sembra proprio venir fuori da questa via di mezzo, provando a bilanciare, con risultati non sempre soddisfacenti, l’uso consueto e non criminalizzato della poligamia (solo) maschile o dei riti e delle superstizioni sciamanica, con personaggi o relazioni apertamente LGBT e narrazioni sviluppate sui continui colpi di scena.
L’industria cosmetica e i suoi scandali nella serie tv Savage Beauty
La serie ruota attorno alla famiglia Bhengu e all’azienda di cosmesi con a capo il patriarca Don (Dumisani Mbebe) e la prima delle due mogli Grace (Nthati Moshesh) che entrambi dirigono, un’industria multimilionaria di prodotti di bellezza considerata il marchio più venduto dell’intera nazione. Volto e musa della maison con sede a Johannesburg è la bella Zinhle (Rosemary Zimu), promettente modella dal passato traumatico legato proprio a quel clan, celato dal patinato successo eppure ricolmo di segreti inconfessabili. In particolare quello legato ad una controversa crema schiarente, segretamente immessa nel mercato perché composta con soluzioni chimiche altamente corrosive e testato diversi anni prima su alcuni bambini orfani delle zone periferiche i quali venivano dagli stessi usati come cavie. Un’informazione che se trapelata potrebbe decretare la fine del marchio e che la stessa Zinhle progetta di rivelare, spingendo i Bhengu verso la rovina e mettendo a nudo i loro segreti di famiglia.
Vendetta, poligamia e veleni
Dramma dagli sprazzi da thriller diretto da Denny Miller, Rea Rangaka e Thati Peele, Savage Beauty mette in scena la sempiterna lotta intestina fra membri dello stesso rango, inserita nello scintillio del mondo modaiolo à la Beautiful della cosmesi femminile e proposta attraverso alcuni sottolineatissimi punti in comune che pesca a piene mani da Succession, i quali non sfuggiranno ai fan più fedeli del capolavoro HBO.
La dinastia e la ricchezza; l’improvviso malore del leader/padre e la lotta al figlio/erede migliore; lo scalpore dell’illegalità e il tentativo di salvare la facciata dell’azienda nella serie Netflix ricordano infatti molto, moltissimo gli snodi principali che hanno reso grandi i Roy, ma i Bhengu nonostante l’apprezzata cattiveria fra fratelli e fra coniugi che viene sferzata col medesimo piglio disfunzionale, non sono sufficientemente all’altezza dei primi sia in termini di scrittura che in termini produttivi.
Similitudini d’altro canto che fanno sorridere per la loro ingenuità; giacché a rendere Savage Beauty proposta peculiare, seppur modesta nella sua realizzazione, sono aspetti narrativi legati strettamente al suo essere prodotto di origine africano, capace per questo di portare in scena alcuni contenuti ancora inediti al pubblico Netflix non africano. L’uso che fa della poliandria ad esempio, usanza nella serie sfruttata per regolare e sconvolgere le dinamiche più interne della famiglia e intesa socialmente come misurazione della virilità maschile, o l’accenno che fa alla tendenza ad occidentalizzare i canoni di bellezza delle donne africane, spesso sollecitate ad una pigmentazione della pelle più chiara simile ai colori caucasici, sono due degli aspetti che potrebbero interessare maggiormente il proseguo della visione; spettacolo, va detto, che non sferra alcun clamore o degno di grandi note come il recente successo de L’assedio di Silverton, ma compiuto nel suo apprezzabile tentativo di intrattenimento misto a denuncia ai grandi marchi del fashion beauty.