Save me too: recensione della serie TV Sky
Save Me Too prosegue con decisione il racconto scritto e interpretato da Lennie James. La seconda stagione è però ancora più avvincente, e la ricerca disperata della figlia di Nelly rivela inquietanti verità.
Da quando il piccolo schermo si è imposto come intrattenimento di alto livello, il thriller è germogliato sotto imprevedibili vesti. Sci-fi thriller, fantasy-thriller, political-thriller dominano lo streaming. Se in futuro dovessero giudicarci dalla nostra tv, potrebbero pensare a una certa ossessione per il terrore latente e quotidiano. Tra tutti i cliché di cui il genere si è appropriato troviamo lo svanire nel nulla di adolescenti. Da Twin Peaks a True Detective, da Stranger Things a Dark. Dove inizia una serie, scompare una giovane. Le premesse di Save Me, serie TV distribuita da Sky, scritta e interpretata da Lennie James, avrebbero potuto dunque lasciare indifferenti. Eppure la storia di un padre alla ricerca della figlia rivela molto presto una profondità inattesa.
Save Me non ha elementi paranormali a cui aggrapparsi, il thriller di cui si veste è tanto semplice quanto sottile. In questa finezza di genere risale un prodotto che si è meritato una seconda stagione. Perché basta la sigla, così fuori tono rispetto alle vicende che seguono, per rivelarci un’originalità di fondo. Save me too (che in inglese si può storpiare in two) riprende lo stile con cui nel 2018 aveva esordito per ampliare le indagini e complicare la ricerca. Il centro rimane il piccolo bar nella periferia di Londra. Il locale contiene ancora molti indiziati. Ma dagli eventi della prima stagione sono passati 17 mesi, un periodo sufficiente da far credere che Jody possa essere morta. Nelly però non è pronto ad arrendersi.
Save me too lancia la serie di Lennie James verso nuove stagioni
Save me too inizia con due episodi incisivi. Seguiamo gli eventi di un caso di stupro che potrebbe ricondurre anche a Jody. Moglie dell’accusato, Gideon Charles (Adrian Edmondson), è la candidata all’Oscar Lesley Manville, ultima stella di un cast già brillante. A guidarlo resta Lennie James, che tira le fila di una sceneggiatura ancora più ripetitiva della prima stagione. Non ricaviamo da ciò un elemento a sfavore della serie TV. Perché il gioco di James segue un incastro che punta a fuorviare. I personaggi si ripetono tra loro, portandoci fino all’ultimo a dubitare della fonte di un’idea. In questo modo sospettiamo di tutti e non ci affezioniamo a nessuno. Eccetto che di Nelly. Con il suo giacchetto giallo – nel primo episodio gliene regalano uno nuovo ma lui promette di non cambiarlo sino a che non rivedrà Jody – diventa un’icona. Agisce con un solo scopo, scavalcando autorità troppo lente o incapaci. Rispetto alla prima stagione, Nelly indossa questo capo come pesasse di più. È il simbolo del suo dolore, e lo indossa ogni giorno. La fauna che ancora circonda Nelly al bar è amichevole ma respingente. Save me too non elemosina empatia, e soprattutto: non vende emozioni. Dove la tv è un dispenser di sentimenti, Save me too propone un’ambiguità continua e sempre più ampia. Allo spettatore è concesso poco. Nemmeno il dialogo (momento chiave del genere) rivela spesso più di qualche informazione.
I temi sociali compaiono forti e chiari
La seconda stagione è però meno tagliente. Più facile nella visione per quanto più complessa negli eventi. Gli ultimi dieci minuti di ogni episodio puntano in direzione del prossimo e fermarsi si fa complesso. La sensazione di allontanarsi dalla soluzione, ma di scoprire molto altro, rende Save me too un gioco a perdere. Il raccapricciante giro di affari tra venditori di giovani e sudici acquirenti rende la visione impegnativa. Il personaggio di Grace (Olive Grey), giovane salvatasi da una condizione in cui la figlia di Nelly potrebbe ancora trovarsi, propone una lettura alternativa alle indagini. Deviata dai traumi vissuti, subisce una seconda ingiustizia in tribunale. Save me too divaga con decisione sui pregiudizi di classe che avvelenano il sistema giudiziario. Nella seconda stagione i temi sociali vengono marcati. Mentre nell’esordio di Lennie James erano immagine (la periferia in cui Nelly non possiede casa ma vaga da un amico all’altro), nel sequel diventano parole precise, spesso superflue. Sicuramente utili a recuperare spettatori maltrattati da immagini troppo fredde. Sono però gli ultimi episodi a lasciare basiti. Con un cambio di direzione drastico, Save me too torna ad allontanare lo spettatore con scelte che colpiscono. Più respinge, più Save me too si distingue e lascia il segno. Una terza stagione dovrà in ogni modo avvicinare una soluzione. Ma se lo show manterrà il proprio stile, potrebbe chiudersi senza un lieto fine.