Servant: recensione della serie tv Apple prodotta da M. Night Shyamalan
Dorothy e Sean sono i genitori del piccolo Jericho, di cui si occupa la giovane babysitter Leanne. Un contesto di placida e ordinaria normalità, ma nulla – proprio nulla – è come appare...
Una domanda, tanto per iniziare: È Hollywood che rigetta M. Night Shyamalan, o è Shyamalan che si rifiuta di sottostare ai dogmi della fabbrica dei sogni? Dalla fine degli anni ’90 (Ad occhi aperti, 1998; Il sesto senso, 1999) il regista indiano naturalizzato americano ha sempre fatto di testa sua, nel bene e nel male. Non si può dire che tutti i suoi film siano dei capi d’opera, i tonfi sonori ci sono stati, ma si può senza dubbio affermare che il suo cinema rappresenti sempre qualcosa di non omologato e non omologabile, a volte in aperta contrapposizione con l’idea preconfezionata di genere che gli Studios impongono (un esempio per tutti: la rappresentazione del tutto personale e anomala dei supereroi nella trilogia formata da Unbreakable, Split e Glass).
Quello di Shyamalan resta un “curioso caso” anche quando non è lui direttamente a dirigere: Servant è una serie tv prodotta e distribuita da Apple TV+ (che in questi mesi sta ampliando la propria proposta anche con See e For All Mankind), ideata ufficialmente da Tony Basgallop e in cui Shyamalan figura “solo” come produttore esecutivo; ma basta pochissimo – l’incipit, o il primissimo clamoroso twist – per capire quanto il suo tocco e la sua impronta siano tangibili, sia dal punto di vista estetico che da quello contenutistico.
Servant: una “terapia con oggetto transizionale”
Chi ama Shyamalan sa quanto sia impossibile parlare dei suoi lavori senza andare incontro ad inevitabili spoiler: i colpi di scena si susseguono uno dopo l’altro, sono elementi imprescindibili che sorreggono l’intera struttura. La storia dei coniugi Dorothy e Sean, conduttrice tv lei e chef di alto rango lui, che assumono una giovanissima tata – la servant del titolo – per accudire il figlio Jericho, pargolo in fasce fin troppo silenzioso e assente, potrebbe già essere di suo sufficiente per imbastire una buona trama thriller-horror venata di inquietudine, che ripercorra gli stilemi tipici del genere un po’ in stile Rosemary’s Baby.
Ma non basta: al termine del primo episodio (è un’anticipazione contenuta già nel trailer della serie, quindi ci sentiamo un po’ meno in colpa) si scopre che il bebè non è reale ma è una bambola reborn, ovvero un pupazzo dalle fattezze terribilmente realistiche, creato per assomigliare il più possibile a un bambino vero. Il motivo di tutto ciò è presto spiegato: il vero figlio della coppia è venuto a mancare dopo sole 13 settimane di vita e, di fronte alla disperazione della madre, una terapista ha pensato bene di consigliare la sostituzione con la bambola come “terapia con oggetto transizionale” che permetta alla donna di riprendersi dalla tragedia.
Servant: il sonno della ragione genera mostri
Da qui si aprono svariati possibili rivoli narrativi, svariate possibili variazioni sul prosieguo della vicenda. Perché la babysitter Leanne, ad esempio, non solo non resta sotto shock per la scoperta, ma finge tranquillamente – al pari della mamma – che quel neonato sia vero; perché il marito non sa più come comportarsi e reagire, sentendosi in minoranza di fronte alla follia collettiva che ha travolto la sua famiglia; perché, tra un plot twist e l’altro, entra in scena anche il cognato Julian, che sta dalla parte di Sean ma sembra quasi più interessato al lato sensazionalistico della questione, come distrazione dalla sua noiosa giornata lavorativa.
Siamo di fronte, in estrema sintesi, ad un collaudato caso di “sonno della ragione” che genera mostri. Ma gli elementi a nostra disposizione (dopo i primi 3 episodi) sono ancora troppo pochi per capire quali siano di fatto i mostri, e di chi sia in realtà il sonno: siamo razionalmente portati a pensare che Sean ci racconti la verità, perché il nostro punto di vista coincide col suo; eppure Sean, che è l’unico personaggio di tutta la serie che non esce praticamente mai di casa, vive anch’esso una realtà parallela scollegata dal resto del mondo. Siamo poi così sicuri che la sua percezione delle cose sia corretta e limpida?
Servant: la trappola della quotidianità
Col suo stile elegante e i suoi ritmi ovattati, immersi in un contesto di pacifica ordinarietà, Servant sembra costruito appositamente per ingannarci: gli indizi sono molteplici (perché tutti bevono così tanto alcol? Che significato hanno i momenti di catatonia di Dorothy?), le piste potrebbero essere veritiere o falsificatrici (il crocifisso e il sottotesto religioso). D’altronde il rinnovo per una seconda stagione dice già tutto: c’è molto da fare e da costruire, il totale senso di inadeguatezza e imprevedibilità che accompagna ogni singola sequenza indica chiaramente la via da seguire e il desiderio degli autori di toglierci qualunque possibile punto di riferimento, qualunque possibile certezza.
È difficile immaginare che una serie tv horror possa avere una tenitura soddisfacente sul lungo periodo: si rischia la ripetizione e (di conseguenza) la noia, o lo stravolgimento dei buoni propositi iniziali (l’orrore che sfocia nell’action, o nel mystery generico). Ma la sensazione è che Shyamalan e soci stiano realizzando qualcosa di solido, libero (come da tradizione) da certi passaggi che stanno diventando obbligati; un prodotto capace di conquistare a sorpresa anche il maestro Stephen King, che con un tweet ha espresso tutta la sua ammirazione definendo Servant “inquietante e coinvolgente”. E, nel mare magnum della serialità contemporanea, questa certificazione di qualità non è certo cosa da poco.