Shantaram: recensione della serie Apple TV+
Una serie modesta con Charlie Hunnam e Shubham nel cast.
Shantaram è una serie, tratta da un long seller, di dodici episodi di quasi un’ora ciascuno: un tempo lunghissimo per una storia di per sé densa che non sembra districarsi mai.
L’adattamento dell’epic novel spiritualistico di Gregory David Roberts, dopo tortuose vicissitudini produttive e realizzative, è finalmente venuto alla luce. Ma il risultato è, al di là dello sfavillio e del calore di superficie, assai modesto e somiglia al suo protagonista: un bellimbusto muscoloso e piallato che ogni tanto s’inabissa in riflessioni pseudofilosofiche trascinando con sé, se non molla prima, lo spettatore annoiato.
Shantaram: odissea di un adattamento “maledetto”
Di Shantaram, romanzo autobiografico dal respiro epico scritto da Gregory David Roberts, si era innamorato subito, già nell’anno della sua pubblicazione – il 2003 -, Johnny Depp, che ne ha acquistato i diritti nel 2008. Del film che avrebbe voluto farne, da produttore e da attore, non si è però saputo più nulla per molto tempo fino a che Depp, nell’autunno 2015, non riprende in mano il progetto e decide di assoldare Joel Edgerton nel ruolo che, in origine, avrebbe desiderato per sé, quello del protagonista. Anche questa volta non finisce bene e, solo dopo molte vicissitudini che, per amore di sintesi, non ripercorriamo, Anonymous Content e Paramount Television Studios si fanno carico di commissionare un ulteriore script e di formare un nuovo cast.
Le riprese che nel progetto originario sarebbero dovute cominciare nel 2008 iniziano esattamente dieci anni dopo, nelle inedite fattezze non più di un di lungometraggio, ma di una serie dalla durata complessiva di una dozzina d’ore, un tempo probabilmente ritenuto congruo a traslare dal libro allo schermo le 1200 pagine del romanzo. Tuttavia, anche una volta avviata la macchina realizzativa del film, non va meglio, e anzi ecco che arrivano i monsoni – la storia è ambientata in India, dove il set è stato di conseguenza allocato -, la pandemia e una serie incalzante di altri contrattempi più o meno gravi. A giudicare dal risultato, sarebbe stato forse il caso di leggere la tragicomica sequenza di imprevisti in termini profetici, quale avvisaglia del futuro disastro.
Shantaram: la materia dolorosa di cui si occupa il libro si irrigidisce e raffredda troppo
Shantaram, infatti, non sembra valere gli sforzi economici e creativi profusi. Segue grossomodo fedelmente il dettato del libro, anche nel retrocedere dell’intreccio in torsioni brutali all’indietro, nell’uso violento e allucinato del flashback: il protagonista, un australiano ex eroinomane e rapinatore di banche, con un passato di dolori e perdite di non facile accettazione, cerca di redimersi in India, ma il suo proposito di ricominciare è ostacolato da nuove disavventure e da un nuovo amore non privo di aspetti sfidanti e faticosi.
La storia, di per sé densa di stratificazioni narrative e di implicazioni esistenzialiste, nella sua traduzione per il piccolo schermo finisce per compattarsi e irrigidirsi su un’estetica sia fotografica sia narratologica eccessivamente crassa, plastica ma non duttile, che, come un cane somiglia al padrone, rispecchia l’aspetto levigato di Charlie Hunnam, muso biondo tutto muscoli e criniera, eppure privo di autentico spessore e nondimeno di sottigliezza espressiva.
All’altare dell’immagine sontuosa e della robotica d’azione gli autori hanno sacrificato tutto: ritmica, scavo, respiro, potenza emotiva, sferzata intellettuale. La spiritualità del testo di partenza si riduce a spiritualismo d’accatto, la sofferenza trasformativa ad arzigogolo filosofeggiante, dagli effetti di uno sfilacciante blaterare, tra l’altro poco coeso con il subplot spionistico e il sobbalzare adrenalinico degli strattonamenti rocamboleschi.
Come già Pachinko – La moglie coreana, altra serie-kolossal distribuita da Apple TV+, anche Shantaram è una fanfaronata visivamente sontuosa, ma, se si va a sfrondare, la scrittura è esile. Rispetto al titolo citato, questo ultimo tuttavia rappresenta un importante passo indietro, un’emorragia di risorse che non trova, francamente, spiegazione in alcuna urgenza artistica, riflessiva o sapienziale che sia.