She’s Gotta Have It: recensione della serie Netflix di Spike Lee
She's Gotta Have It è un manifesto femminista che Spike Lee ha voluto affidare a Netflix. Ecco la nostra recensione della serie
Con She’s Gotta Have It Spike Lee scrive, dipinge, incide, disegna un manifesto femminista e lo fa vestendolo da comedy per Netflix. Ciò che ne scaturisce è una serie dai toni soul, glamour-black, di quella cultura afroamericana di cui tutti, in fondo, vorremmo far parte. La sua protagonista (DeWanda Wise) è una donna dalla bellezza mozzafiato, una pittrice e ritrattista di Brooklyn che giostra contemporaneamente tre amanti. Tre uomini profondamente diversi tra loro, ognuno dei quali la appaga in maniera differente. Che nessuno, però, si azzardi a chiamarla sgualdrina.
La serie è un remake del film di Lee del 1986 intitolato Lola Darling, considerato il lungometraggio d’esordio del regista che, in quel caso, era anche sceneggiatore e interprete. Quella che abbiamo davanti, però, è una versione aggiornata che guarda con ammirazione al passato. Le vicende della protagonista, allora, hanno come colonna sonora brani soul, jazz e r&b di Miles Davis, dei The Roots, di Solange e Frank Sinatra, di John Coltrane e Stevie Wonder, di Prince e di Mary J. Blige. Una colonna sonora sensuale che ci porta da un amante all’altro, da un bicchiere di vino con le amiche alla rivoluzione femminista fatta con i manifesti per strada e le dichiarazioni di indipendenza da uomini possessivi.
She’s Gotta Have It ci fa annuire soddisfatti davanti allo schermo, ci fa inorridire davanti alla brutalità degli uomini e ci fa allontanare ideologicamente da una libertà sessuale che, in fin dei conti, forse non ci apparterrà mai davvero. Una donna si sente sì in grado e in diritto di fare quello che vuole con il suo corpo e con la sua sessualità, ma il bigottismo è dietro l’angolo ed è facile farsi contagiare. Da spettatori giudichiamo per forza Nola e il suo modo di vivere libertino (per dirla all’antica), pur sostenendo e trovando una certa consolazione in quello che dice guardando dritto nella macchina da presa. E i suoi discorsi non sono fatti di femminismo banale, ma di un concetto semplice, scontato e che ci pare irraggiungibile: “Io non sono di proprietà di nessuno“.
Il femminismo di Nola è un femminismo del ventunesimo secolo, che osserva con rispetto quello che è stato, ma che conosce troppo bene quello che è. È un femminismo che accetta di essere oggetto sessuale, perché agli uomini tocca lo stesso trattamento: la cosa fondamentale, sempre e comunque, è il consenso. Non ci piace essere approcciate da sconosciuti con nomignoli, fischi, bacini, epiteti lusinghieri o meno. Non ci piace uscire per strada con il terrore di essere aggredite e con la consapevolezza che è una possibilità tutt’altro che remota. Nessun comportamento o abbigliamento di una donna, dà a un uomo il diritto di approfittare di lei e questo concetto, She’s Gotta Have It, ce lo spiega molto bene.
La serie di Spike Lee dimostra come il femminismo trascenda il genere. Il femminismo è un’ideologia che punta all’uguaglianza. Nel lavoro, nella vita, nella camera da letto. Il regista ce lo spiega con quello sguardo bellissimo e profondamente artistico a cui molte volte ci ha abituati. La sua visuale del mondo è elegante e hip hop, il suo sguardo è netto, esteticamente impeccabile. La sua scrittura è fatta di citazioni, di cinefilia, di ritmo e She’s Gotta Have It è un nuova luccicante moneta d’oro nel forziere di Netflix.