Superstition: recensione della serie tv horror Netflix
La nuova serie Horror proposta da Netflix nel catalogo di aprile non convince: trama e personaggi scontati e un approccio al tema del soprannaturale piuttosto superficiale. Ecco la recensione di Superstition
Ideata, diretta e interpretata dal regista afroamericano Mario Van Peebles, Superstition è la nuova proposta del catalogo Netflix. Giocando su numerosi cliché del genere horror-esoterico, ma declinato in chiave black, la serie è un’epopea familiare melodrammatica e poco accurata, un tentativo di aggiungere un tassello a un genere complesso, fin troppe volte preso sottogamba.
Superstition, nel corso dei dodici episodi della prima stagione, non decolla e alterna momenti narrativamente deboli a sequenze in cui l’attenzione sopravvive grazie a una volontaria sospensione del giudizio da parte dello spettatore o da una curiosità, non troppo tenace, di vedere come va a finire.
Un prodotto, dunque, non molto ben riuscito, che riserva tuttavia alcuni momenti di fascino grottesco e sopra le righe. Apprezzabile, inoltre, l’obiettivo (forse inconsapevole) di ribaltare il luogo comune delle serie tv sulle famiglie afroamericane: di norma sorridenti e rassicuranti e alle prese con le piccole beghe quotidiane, qui diventano un piccolo esercito di cacciatori di demoni, unica speranza di sopravvivenza per l’umanità.
Superstition: un dramma familiare in un mondo soprannaturale
Famiglia e demoni, rapporto padre-figlio e caccia alle streghe: Van Peebles e i suoi non si fanno mancare nulla. Superstition racconta la storia della famiglia Hastings, la cui principale attività risiede nel gestire le onoranze funebri e il cimitero della cittadina americana di La Rochelle, in Georgia. Un giorno, durante uno dei funerali organizzati dalla signora Bea Hastings (Robinne Lee) e da suo marito Isaac (Mario Van Peebles), irrompe in casa il figliol prodigo Calvin (Brad James), arruolatosi nel Marines e scomparso dalla circolazione per ben sedici anni. Sin dal primo momento risulta chiaro che gli Hastings non sono dei semplici impresari di pompe funebri, ma che il loro legame con l’al di là e tutto quel mondo insondabile di spiriti, demoni e streghe è per loro un vincolo stretto e denso di segreti.
Un primo, minaccioso, avversario della famiglia, e in particolar modo del capostipite Isaac sarà La Falce (W. Earl Brown), un temibile demone deciso a far fuori il suo cacciatore una volta per tutte. Scopriamo, infatti, che Isaac è in realtà un antico guerriero saraceno, deputato a combattere le schiere infernali sin dai tempi delle Crociate. Sopravvissuto a secoli di battaglie improbabili e sanguinarie, l’immortale è arrivato in Georgia, dove ha messo su la famiglia che ora conosciamo.
Il tema familiare è – per l’appunto – piuttosto centrale nella trama di Superstition. Il costante pericolo che la missione degli Hastings comporta si intreccia ad anni di mancanze paterne e di figure materne di supporto: come spesso accade nelle storie di questo tipo, si gioca con la coazione a ripetere di un modello, tant’è che lo stesso senso di distanza che si è creato tra Isaac e Calvin, sarà riprodotto tra Calvin e la figlia adolescente Garvey (Morgana Van Peebles). Assistiamo, allora a questo palleggio emotivo in cui il protagonista – Calvin – si dovrà dividere tra il ruolo di figlio e quello di padre e tra la responsabilità dei propri cari e la costante minaccia demoniaca che lo assilla. Analogamente, il nome stesso scelto per il capofamiglia, Isaac, riferito al figlio di Abramo chiesto in sacrificio per dimostrare la fede in Dio, tradisce un legame col genitore non esattamente pacifico.
Di contro, le figure femminili della famiglia, le due madri presenti all’interno del denso quadro familiare, Bea e May (Demetria McKinney), sono donne di fortissimo polso, indipendenti e vere maestre nel proteggere i propri cari e nel perdonare loro ogni errore: un compito difficile ma fondamentale, in un contesto minato da caratteri maschili spigolosi e compromesso dai sensi di colpa e da una costante minaccia di morte.
Magia e azione in Superstition
L’elemento che connota primariamente la serie di Van Peebles è quello esoterico, legato a un racconto molto pop della magia e delle credenze di varie epoche e Paesi. Gli Hastings sono, grazie anche al supporto dell’esperta di arti oscure Tilly (Tatiana Zappardino) e l’intervento di vari personaggi di contorno, depositari di più o meno tutto lo scibile magico mai pronunciato. A questo grande bagaglio, si aggiungono religioni antiche e moderne e tutto quello che ha un sapore un po’ fuori dall’ordinario, dando luogo a un enorme calderone di riferimenti e citazioni.
Sembrerebbe evidente uno studio piuttosto sommario di diverse tradizioni popolari messe al servizio della trama, senza un particolare interesse nell’approfondirne neanche una. Lungi dall’accusare una serie tv di non essere un trattato di antropologia, si evince comunque una certa superficialità nell’accostare storie e pratiche molto lontane tra loro, messe in scena con movimenti di mani e recitazione di formule che, nel 2018, fanno un po’ sorridere. Erede di una fiction action-horror molto in voga tra gli anni Novanta e i primi Duemila – si pensi a Buffy l’ammazza vampiri – Superstition non aggiunge molto a questo filone. Se, però, si riesce a perdonare le ingenuità di Buffy e compagnia per via di una distanza critica data dall’età del prodotto, ci si aspetterebbe qualcosa di più attuale da una serie concepita ben vent’anni dopo. Nonostante la presenza di alcune scene splatter (poche) che spingono l’asticella un po’ più su rispetto all’estetica anni Novanta, anche tutto l’apparato degli effetti speciali – fondamentale in progetti del genere – risulta inadeguato, dando spazio a vari momenti di perplessità.
Regia, recitazione e definizione dei personaggi non aiutano affatto a salvare la serie, che si muove entro binari piuttosto standard: il livello dei prodotti da piccolo schermo è ormai troppo alto per includere prodotti come Superstition nella felice fase di fermento creativo di cui spesso e volentieri Netflix si fa portavoce: al contrario, ne rimane fuori, strizzando l’occhio a un pubblico che, però, è andato ben oltre.