The Bear – Stagione 3: recensione della serie TV Disney+

È ora di tornare dietro i fornelli per la terza stagione di The Bear. Con Jeremy Allen White, Ayo Edebiri, Ebon Moss-Bachrach e tanti altri, i dieci episodi sono disponibili su Disney+ dal 14 agosto 2024.

Veniva spontaneo chiedersi, subito dopo la fine della seconda, come sarebbe riuscito, The Bear, nell’attesa terza stagione – i dieci episodi sono disponibili su Disney+ dal 14 agosto 2024 – a non farsi travolgere dal successo. Evitando, per quanto possibile, di prendere a esempio i suoi (perfettamente) imperfetti protagonisti. La risposta alla domanda – esiste – non va anticipata, per il momento. Non si sbaglia a procedere per iperboli, parlando della serie creata da Christopher Storer e interpretata da Jeremy Allen White, Ebon Moss-Bachrach, Ayo Edebiri, Lionel Boyce, Liza Colón-Zayas, Abby Elliott e Matty Matheson. Tre stagioni, il viaggio comincia nel 2022, nel segno del mix di dramma e commedia, di un lavoro coraggioso sulla forma (della serie, di ciascun episodio) e di un modo interessante di raccontare il rapporto cibo-uomo. Non è questione di gusto e di colore, di un intelligente diversivo che smorza le asprezze della storia: il cibo è un personaggio e un veicolo narrativo formidabile. Tra guest star, alta cucina, salute mentale e il peso del passato, la posta in gioco della terza stagione è trovare un modo sano per restare in vetta, dopo averla raggiunta. Il passato di Carmen Berzatto – detto Carmy – insegna che c’è un prezzo da pagare, a inseguire la perfezione nel modo sbagliato. Facendone una malattia, sarebeb a dire.

The Bear – Stagione 3: tutto ruota intorno a Carmy

The Bear Carmy e Sydney - cinematographe.it

Il termine inglese, legacy, in italiano si può tradurre in modi diversi: eredità, retaggio, lascito. Le cose che si lasciano dietro di sé; è questa la priorità di Carmy Berzatto (Jeremy Allen White). Ogni chef è la somma degli chef che lo hanno preceduto, è l’amalgama (chissà quanto perfetto, quanto intenzionale) delle pressioni, dei fallimenti e dei successi. Carmy, all’inizio e anche alla fine di The Bear 3, è lo stesso di sempre: geniale, determinato, inquieto. E un completo disastro nei rapporti umani. Lo avevamo lasciato, metaforicamente e materialmente, in trappola. Chiuso dentro la cella frigorifera di The Bear, il ristorante di Chicago appena inaugurato (stagione 2, concentrata sull’attesa spasmodica e i preparativi della grande apertura) e sorto dalle ceneri del locale gestito fino a qualche tempo prima dal fratello Mikey (Jon Bernthal), prematuramente scomparso.

Era stata la morte del fratello a spingere Carmy (stagione 1) a mollare il mondo dell’alta cucina e New York – il perfezionismo esasperato è una strada spianata verso il crollo nervoso – per tornare a Chicago e ripartire da capo. Alle sue condizioni. Carmy, ancora più di prima, è l’indiscusso padrone della storia. Basta, per capire da che parte soffi il vento in The Bear 3, perdersi appena un po’ nel collage audiovisivo che occupa nella sua interezza il primo episodio. Pillole di Carmy, i primi timidi approcci nelle cucine dei ristoranti più prestigiosi, il successo, il campionario di nevrosi e ossessioni da cui è difficile evadere. Per i restanti nove (tranne due eccezioni di cui si parlerà), The Bear 3 dimentica consapevolmente la ricetta del suo successo, “sbriciolando” il racconto e puntando sull’appeal degli interpreti per sopperire ai vuoti, deliberati, della narrazione, eccezion fatta per l’eco ansiosa di una recensione, la prima importante per il locale, che smuove l’interesse dei personaggi da tra un episodio e l’altro.

Tutto ruota intorno a Carmy. Non è cambiato di un millimetro. Carattere introverso, genialità e un ostinato rifiuto a rapportarsi con gli altri su un piano di parità. Ha portato il locale a un livello superiore, ma il prezzo da pagare è stato alto. Sul finire della seconda stagione, congelato era il rapporto con Claire (Molly Gordon), sui carboni ardenti l’amicizia con Richie (Ebon Moss-Bachrach), promossa Sydney (Eyo Edebiri) senza mai accettarne input e suggerimenti (e una parte importante del terzo capitolo riguarda proprio questo, la solidità della loro relazione professionale). Accanto, c’è sempre la sorella Natalie (Abby Elliott), l’unica con cui riesca a stabilire una parvenza di comunicazione. E i fedeli Marcus (Lionel Boyce), Tina (Liza Colón-Zayas) e Neil (Matthy Matheson). Carmy è in trappola, prigioniero dei suoi demoni. E la serie con lui, non nel miglior senso.

Cosa ha reso grande la serie, ieri. Cosa manca (ma solo in parte), oggi

the bear stagione 3 cinematographe.it

C’è una sintonia curiosa, non delle più soddisfacenti, tra il dietro le quinte di The Bear 3 e come la serie sceglie di parlare dei suoi personaggi (le dinamiche incendiarie, il detto/non detto, le nevrosi). Per capirlo, bisogna ricordare che il movimento è la cosa più importante, nella vita, al cinema e anche in tv. Si parla di movimento come si potrebbe parlare di evoluzione, non evoluzione, progresso, regresso; in sintesi, dell’estrema variabilità delle cose. A rendere grande The Bear – nella prima stagione, molto buona; nella seconda, straordinaria – era stata l’abilità nel plasmare l’interiorità dei personaggi e l’atmosfera, senza sacrificare il dinamismo della linea narrativa. Atmosfera, psicologia e movimento; non esiste ricetta più stuzzicante, per il palato dello spettatore alla ricerca di uno storytelling di qualità e in equilibrio tra dramma e risata. The Bear 3 è la storia di un ristorante e della sua gente. Il successo è alle porte e nessuno sa come gestirlo; l’unica certezza è che che la magia di un tempo è svanita. E il presente è più che altro pressione e nervi a fior di pelle.

Eccola, l’analogia frustrante: The Bear 3, al culmine di un successo che va ben oltre il consenso critico e l’apprezzamento del pubblico per imporsi come fenomeno di cultura (pop), soccombe alla stessa inerzia esistenziale dei personaggi. Manca, alla stagione, il dinamismo di una narrazione capace di accostare fatti concreti e (psico)analisi. The Bear 3 rilancia il suo discorso su vita, cucina e tutto il resto, concentrandosi sull’interiorità tormentata del protagonista. Lavora sul nervosismo e i silenzi che parlano, i pilastri dell’eccellente caratterizzazione di Jeremy Allen White, per mostrarci Carmy….alle prese con gli stessi fantasmi di sempre, senza il minimo accenno di un’evoluzione, buona o cattiva, che lo costringa a muoversi. L’enfasi sul personaggio toglie respiro ai comprimari – e c’è poco che possano fare, Ebon Moss-Bachrach e Lionel Boyce, per prendersi lo spazio che serve – e un po’ di vigore al percorso di Ayo Edebiri. Sydney potrebbe tenere testa in maniera più efficace alle pretese e al perfezionismo autodistruttivo di Carmy.

The Bear 3 è solo la prima parte di un viaggio lungo. Restiamo in attesa della metà mancante, la quarta stagione, girata più o meno a ridosso della terza. Il senso di incompiutezza, deliberatamente veicolato dalla scrittura di Christopher Storer, stimola una certa curiosità, ma l’impressione è che la stasi non sia solo un espediente narrativo. Con una considerevole eccezione, anzi due. Due episodi (su dieci, media rivedibile): il sesto, diretto da Ayo Edebiri, su Liza Colón-Zayas e la vita della sua Tina. L’ottavo, un passo a due di commovente intensità tra Abby Elliott e Jamie Lee Curtis, madre e figlia in un momento decisivo nella vita di entrambe. È qui che The Bear 3 ritrova la passata grandezza: la voglia di sperimentare con il tempo e la forma dell’episodio, il provocatorio accostamento di dramma e umorismo, la paziente costruzione dell’atmosfera, la vita raccontata per frammenti, lampi, squarci, lo studio di carattere(i) e una narrazione che spinge verso una meta precisa. The Bear 3 ha (parzialmente) smarrito la via. Volendo, sa come fare a ritrovarla.

The Bear – Stagione 3: conclusione e valutazione

Il giudizio a valle tradisce le aspettative a monte. Per una serie diversa, arrivata alla terza stagione senza il fardello (perché alle volte è un fardello) di questo prestigio, di questo consenso, di questo amore, sarebbe doveroso inquadrarne limiti e imperfezioni in una luce più benevola. La severità del giudizio tradisce la stima e la consapevolezza delle potenzialità del progetto. The Bear 3 è una buona stagione – qualità della scrittura, messa in scena elegantissima, grande musica, empatia dagli interpreti – che raccoglie meno del possibile. E del dovuto.

È il cibo a raccontarcelo. Non c’è il sapore, la carnalità, il gusto e soprattutto il risvolto simbolico: il cibo che spiega e racconta l’emotività di chi lo prepara. Manca il viaggio, manca il progresso, manca un solido fondamento narrativo che insaporisca l’atmosfera e perfezioni le psicologie. In assenza di quello che serve, The Bear 3 è una pregevole – ma lacunosa – collezioni di momenti, di fette di vita, di nevrosi, di passioni e bisogni. Senza una meta, senza un approdo in vista a dare un senso costruttivo alla stagione, la serie finisce per farsi condizionare dalla stasi dei personaggi.

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 3
Emozione - 2

2.7