The Crown – stagione 5: recensione della serie TV Netflix
Su Netflix torna dal 9 novembre 2022 per la quinta stagione The Crown, il dramma che racconta le vicende di Elisabetta II e della famiglia reale inglese.
Cerchiamo di essere realistici: è vero che The Crown – stagione 5 è un fallimento? Perché se vi guardate attorno e leggete qualche recensione (nel dubbio prima finite questa), vi renderete conto che il sentire comune è chiaro e la penultima stagione della serie TV Netflix che racconta le vicende della famiglia reale inglese rappresenta un calo drastico nel gradimento che finora aveva riscosso.
Follia, rispondiamo noi.
Durante la visione dei nuovi episodi, infatti, torna quel tormentone che – diciamolo – ha accompagnato lo show in questi anni: The Crown è sempre bello. È bello perché è un mistero come riesca a essere così avvincente il racconto romanzato dei capricci della Corona; è bello perché ogni inquadratura rimane una lezione di classe; è bello perché la lezione, The Crown, la dà a tutti anche quando si tratta di casting e sceneggiatura.
The Crown 5: la serie arriva negli anni Novanta
E lo si vede nei monologhi dei suoi protagonisti, ma anche negli elaborati silenzi accompagnati dalla colonna sonora di Martin Phipps (che regge il confronto con i sempreverdi titoli di testa di Hans Zimmer) e dalle scenografie barocche, reali, pompose, che ci fanno ragionare su quanto la monarchia sia fuori dal tempo. In tutti i sensi.
E in questa stagione siamo negli anni ’90. Sono finiti gli anni di ferro della Thatcher, ma la recessione attanaglia ancora l’uomo medio inglese che si ritrova, volente o nolente, a dover sostenere gli sfarzi della sua Regina e di tutti i parassiti reali. La Corona in questa stagione è Imelda Staunton che torna nell’immaginario comune svestendo i panni rosa della infernale Dolores Umbridge per indossare i tailleur di Elisabetta. Accanto lei ci sono il suo Philip (Jonathan Pryce), la cui devozione sembra ormai totale, e il figlio Charles, interpretato da un Dominic Monaghan che è davvero troppo bello per essere il futuro Re d’Inghilterra.
I riflettori, però, sono puntati su di lei, su Diana. Ne veste i panni la bellissima e algida Elizabeth Debicki che – a testa bassa – ci accompagna fino alla scomparsa della principessa. Il cast si colora di personaggi e interpreti eccellenti: Khalid Abdalla e Salim Daw sono Dodi Al Fayed e il padre Mohamed a cui la serie dedica uno splendido episodio che ne racconta le origini; Jonny Lee Miller schiva le difficoltà del Primo Ministro John Major e Leslie Manville prende il testimone di Helena Bonham Carter e veste i tristi panni di Margaret (con un’interpretazione che brilla di luce propria).
The Crown: la quinta stagione è davvero così male?
E se è vero che il ritmo non può rimanere alto per sempre e che di perfetto non c’è nulla, è anche necessario ammettere che se tutti i prodotti perdessero valore come The Crown, dovremmo ritenerci fortunati. Certo, forse qualcuno si aspettava il sangue: volevamo scoprire gli altarini dietro la morte di Diana, volevamo più segreti, più colpi di scena. Ma la serie di Peter Morgan è altro.
Lo show britannico è dramma ed è insidie, infido e affilato come solo una famiglia disfunzionale sa essere. Guardiamo la matassa che non si srotola, ma si riavvolge su se stessa, consapevole dei nodi che sta creando, ma troppo ingarbugliata per riuscire a districarsi. La vediamo torcersi e dare il peggio di sé e ci costringe a osservare – spettatori inermi, giudicanti e morbosamente curiosi – il declino di un ideale. Che se non ci sono colpi di scena e se le scoccate a Elisabetta e alla sua eredità (fisica e non) sono meno esplicite di quello che molti si aspettavano, ci viene da dire: The Crown ha mai davvero agito a volto scoperto? O forse si è sempre lasciato intendere, sornione e beffardo?
Per 5 stagioni abbiamo avuto davanti una figura ben precisa: quella che doveva essere madre, figlia, sorella e moglie, è sparita dentro la Corona. Quel consiglio (e presagio) che le era stato fatto all’inizio della sua vita da monarca, Elisabetta l’ha seguito alla regola. Non è più un essere umano, è un simbolo. Ma i simboli non hanno empatia. I simboli non rimpiangono di aver costretto la sorella a una vita infelice togliendole il grande amore della sua vita; i simboli non si incolpano di aver cresciuto figli falliti che non sono in grado di amare; i simboli non si spaventano all’idea di essere l’epicentro di un sistema che incrina le menti, che distrugge l’individuo, che causa dolore.
E forse, ora che siamo arrivati quasi alla fine (la sesta stagione sarà l’ultima) abbiamo più chiaro che mai quale sia il punto di un prodotto come The Crown: quando nasci in un sistema che – per diritto di nascita – ti forza al di sopra di tutti gli altri, come è possibile che tu non ti senta Dio? L’empatia è un pregio dei comuni mortali. L’amore (disinteressato e totale) è una debolezza che porta alla perdizione. Gli Dei non vedono nemmeno le teste alzate dei fedeli che li osservano in adorazione. Gli Dei non devono guadagnarsi nulla: gli Dei possiedono la Terra intera.