The Gilded Age: recensione della serie TV in onda su Sky
La serie scritta da Julian Fellowes, l’aristocratico sceneggiatore di Downton Abbey e Belgravia, segue la diseredata Marian nei salotti contesi tra la vecchia e nuova New York.
Sir Julian Fellowes, firma The Gilded Age, la serie HBO (già rinnovata per una seconda stagione) in onda dal 21 marzo 2022 su Sky Serie e on demand su NOW, con un cast composto da Christine Baranski, Cynthia Nixon, Morgan Spector, Carrie Coon, Louisa Jacobson Gummer, Denée Benton nel cast insieme a Taissa Farmiga, Blake Ritson, Simon Jones, Harry Richardson, Thomas Cocquerel e Jack Gilpin.
Ci fu un’epoca, negli Stati Uniti e soprattutto a New York, tra gli anni ottanta dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo, in cui tutto accelerò di colpo: grossi capitali si muovevano, le occasioni di impiego moltiplicavano e con loro le opportunità di rapida ascesa sociale; dall’Europa i flussi migratori s’intensificavano. La parte della società americana più conservatrice accusò, di contraccolpo, la scossa provocata da un clima tanto elettrico ed effervescente quanto ai loro occhi profondamente sovversivo.
Mark Twain, che coniò l’espressione satirica “The Gilded Age” per darne titolo a una sua novella di denuncia, aveva compreso che la doratura esteriore fungeva da copertura delle screpolature sottostanti: le disuguaglianze sociali, infatti, anziché ridursi, accrebbero, e, come sempre accade, soltanto i più spregiudicati riuscirono a mettere le mani sul bottino, mentre a tutti gli altri non restarono che briciole.
The Gilded Age: dopo Downton Abbey e Belgravia, l’aristocratico Fellowes esplora l’età dell’oro di New York, tra soldi vecchi e nuovi
In quelle screpolature s’insinua, senza però la stessa vocazione critica di Twain, The Gilded Age, la serie tv in nove episodi a ritmo placido in programmazione su Sky e on demand su NOW dal 21 marzo 2022 scritta da un veterano del period drama quale Julian Fellowes (Downton Abbey; Belgravia) che, da buon aristocratico, sembra riservare le caratterizzazioni più argute ai personaggi del vecchio mondo, difensori dei valori della Storia e delle sue forme tradizionali di ricchezza – Agnes Van Rhijn ricorda, sebbene priva della medesima plasticità e ricchezza di sfumature, l’indimenticata Lady Violet downtonabbeyana – rispetto ai parvenu, monocordi nel rivendicare il posto che spetta loro nel rinnovato scacchiere sociale.
Tra i due mondi in lotta si situa la protagonista Marian Brook (Louisa Jacobson che, non v’inganni l’apparente cognome, in verità un middle name, è la figlia ultimogenita di Meryl Streep e Don Gummer), una giovane donna che il padre ha lasciato senza soldi, costretta a vivere sotto il tetto e alle condizioni di due ricche zie – la già citata Agnes, vedova, e la nubile Ada –, avvinghiate, per diritto materno, ai codici del patriziato newyorchese contro le nuove leggi proposte dai rampanti plebei incarnati dai coniugi Russel, vicini di casa assai sgraditi. Marian, d’indole riservata, nasconde dietro modi allineati alle aspettative di genere, un carattere determinato e idee per il tempo rivoluzionarie che una delle due zie scoraggia, mentre l’altra ammira.
The Gilded Age: il Bildungsroman di Marian Brook, giovane donna al crocevia del cambiamento sociale
Proprio grazie alla natura ribollente della sua apparente e quieta adesione alle regole di società, riesce ad affermare sé stessa e a riscattarsi da un destino già scritto di passività e acquiescenza. Accanto a lei, la sua benefattrice e ‘compagna di battaglie’ Peggy Scott, una ragazza di colore che desidera diventare scrittrice, si confronta con una realtà in cui la relazione interrazziale è temuta: Fellowes, come già nei suoi show precedenti, mostra non solo i conflitti tra culture in collisione tra loro, ma anche i pregiudizi e le ipocrisie con cui la ‘diversità’ – razziale e sessuale – viene, se non rifiutata, mistificata, tollerata con sufficienza, schivata da coscienze a proprio agio solo con ciò che è noto e comprensibile attraverso grammatiche consuete.
Non vi è, insomma, nulla di nuovo sotto il sole, e non tanto appunto per le tematiche affrontate, di per sé sempre urgenti, ed anzi il materiale sarebbe più che mai fecondo, ma per lo sguardo stanco che viene loro dedicato, per il gesto fiacco di una scrittura che s’acquatta nella stessa angolazione di sempre e ripete i suoi cliché narrativi e i suoi schemi invece di cercarne di nuovi: The Gilded Age non offre stimoli a chi guarda, al massimo un intrattenimento a basso grado di eccitazione per chi abbia lo stesso cospicuo tempo libero – ogni episodio si concede un’ora abbondante per svolgere le sue trame – di cui possono disporre le signore protagoniste. Per tutti gli altri, meglio leggere i romanzi di Edith Wharton (L’età dell’innocenza; La casa della gioia) che, con maggiore intelligenza e qualità narrativa, della gilded age incidono le viscere, svelandone i più riposti, insospettati contorcimenti.