The Handmaid’s Tale – stagione 2: recensione
Trionfatrice agli ultimi Emmy Awards con ben otto premi su dodici candidature, la serie-evento The Handmaid’s Tale, a solo un giorno di distanza dalla messa in onda americana, fa il suo ritorno anche in Italia, di nuovo distribuita da Tim Vision, con i primi due episodi, sui 13 previsti, di una seconda stagione che si preannuncia altrettanto memorabile.
Alla fine di Night, decima e ultima puntata della prima stagione, l’ancella “Offred”, che ha il volto espressivo di Elizabeth Moss (Mad Men), fa il suo ingresso nel buio di un van che la porterà “verso l’oscurità o verso la luce”, incontro ad un futuro che, nel mondo distopico della serie, non lascia presagire nulla di buono. Esattamente da qui ripartono i nuovi episodi di The Handmaid’s Tale, da quel salto nel buio che non potrebbe essere più minaccioso in questo inizio di stagione: June riparte all’insegna di quella brutalità che abbiamo imparato essere la cifra stilistica dell’intera serie liberamente ispirata al romanzo di Margaret Atwood, la quale continua a collaborare al progetto assieme al creatore dello show Bruce Miller. Con la differenza che in questi due primi episodi la violenza, psicologica prima ancora che fisica, raggiunge picchi mai visti finora, costituendo un unicum non solo all’interno della serie, ma probabilmente all’interno dello stesso panorama televisivo.
Ne abbiamo subito un assaggio nella lunga e scioccante sequenza iniziale: in un mondo grigio, reso ancora più asettico da un uso magistrale della fotografia, nel quale il rosso cremisi degli abiti delle Ancelle risalta al punto da accecare quasi lo spettatore, qualsiasi forma di ribellione deve essere repressa a tutti i costi, pena la sopravvivenza stessa del potere. All’interno di quel feroce regime che bella serie va sotto il nome di “Gilead” – una strana forma di totalitarismo pseudocristiano, improntato ad un ferreo patriarcato – non può trovare spazio la misericordia per un gruppo di ancelle ribelli, che, alla fine della prima stagione, si rifiutano di fare del male ad una delle loro compagne.
The Handmaid’s Tale 2 : la serie-evento torna in Italia con un memorabile inizio di stagione
Soltanto Offred, visto il suo stato eccezionale, una gravidanza più unica che rara, scampa alle torture fisiche. Non può però scappare alla vista di quello che sono costrette a subire le altre ancelle, riunite tutte all’interno di uno dei simboli della cultura americana e, più precisamente, il “Fenway Park”, lo storico stadio di baseball della città di Boston, vero e proprio orgoglio e fiore all’occhiello della città. Spinte al centro del campo, con una museruola di pelle sulla bocca ad impedire a tutte di gridare, il più prezioso possedimento di Gilead, le poche donne ancora fertili, vengono raggruppate come animali dirette al macello verso un immenso patibolo che domina il campo da gioco, il tutto accompagnato dallo struggente pezzo This Woman’s Work di Kate Bush.
Anche se nessuna sofferenza fisica, per il momento, viene inflitta loro, i creatori della serie non risparmiano nulla al pubblico in termini di orrore e tensione angosciosa. Ancora una volta è il volto famigliare della protagonista ad essere capace di sopperire all’assenza di dialoghi, riuscendo ad esprimere con pochi semplici cenni le sofferenze di un gruppo di donne trattate alla stregua di meri oggetti da riproduzione.
Un inizio che già da solo vale la visione, riconfermando The Handmaid’s Tale tra i prodotti più interessanti e complessi, proprio perché volutamente difficili da guardare, dell’attuale panorama televisivo. Menzione speciale va fatta all’inquietante personaggio interpretato da Ann Dowd (The Leftovers), quell’ Aunt Lydia mefistofelica e imperscrutabile che comincia, in questo debutto di stagione, a tradire i primi cenni di cedimento nella propria incrollabile fede. Perché qualcosa è inevitabilmente cambiato e anche se le prime due puntate formano, nella regia e nello stile, un blocco unico con i precedenti episodi (basti pensare al ricorso massiccio, ancora una volta, dei flashback ai quali la prima stagione ci aveva abituato), siamo all’alba di una fondamentale svolta narrativa nella dicotomia della serie: un processo di riappropriazione dell’identità da parte della protagonista a partire dal proprio nome, June.