The Hot Zone: recensione della mini-serie in onda su National Geographic Channel
Dal 4 settembre 2019, su Nat Geo, The Hot Zone, la trasposizione in sei episodi del saggio narrativo di Richard Preston sull'introduzione in territorio americano del virus Ebola e sull'eroismo di un'équipe di scienziati che ne scongiurò la pandemia.
1979, Repubblica democratica del Congo. Un filovirus si manifesta all’improvviso senza che la medicina riesca a capirne il perché o a porre un argine alla sua implacabile sentenza di morte: si tratta dell’Ebola, si diffonde attraverso il contatto di fluidi biologici e si dichiara dapprima tramite sintomi aspecifici e poi con l’insorgere di violente febbri emorragiche. Nel 1989, il virus sembra essere entrato in suolo americano; un’équipe di scienziati della U.S. Army Medical Research Institute of Infectious Diseases di Fort Detrick si prende dei rischi enormi per scongiurare il contagio globale. The Hot Zone, in onda dal 4 settembre 2019 su Nat Geo, è una mini-serie adattata abbastanza fedelmente dall’omonimo libro, un saggio narrativo che Richard Preston scrisse con enorme successo nel 1994.
Nel ruolo della protagonista, la Dott.ssa Nancy Jaax, è la brava Julianna Margulies, già ammirata, tra le altre prove attoriali, per la sua solidità interpretativa in The Good Wife e – anche se il ricordo è già più vago – per aver dato corpo a uno dei personaggi più amati in E. R., l’infermiera e poi medico Carol Hathaway.
The Hot Zone: Julianna Margulies è Nancy Jaax, patologa veterinaria dell’esercito americano
La Margulies restituisce agli spettatori la vera Nancy Jaax, patologa veterinaria e tenente colonnello dell’Esercito Americano, con prudenza e asciuttezza: The Hot Zone ricostruisce gli eventi reali drammatizzandoli ma, nell’operazione di trasfigurazione, non riesce a trovare una chiave di interesse diversa dalla mera vocazione alla testimonianza, alla traduzione di fatti nei loro equivalenti mediatici. Risulta nel contempo molto stimolante e molto arduo, dopo Chernobyl (la mini-serie sul disastro nucleare che nel 1986 terrorizzò l’intera Europa, vera e propria cuspide nella storia della serialità), evocare con gli strumenti della fiction la paura di fronte all’ignoto, la tensione crescente verso il baratro, emotivo e psicologico, aperto da una nuova sorgente d’ignoranza, quella che riguarda un male tanto rapido quanto invisibile, un mostro biologico incombente, ma silenzioso e inesprimibile.
Proprio questo inesprimibile rappresentato dalla nostra esposizione alla morte e alle forme sempre diverse, sempre imprevedibili e insorvegliabili, in cui questa, disincarnandoci, s’incarna, è la sfida contro cui Chernobyl si è misurato e ha vinto: non la traduzione scenica dei fatti, ma la resa poetica, lirica e a suo modo spirituale, di un’impotenza propria dell’umano a cui gli uomini, certi uomini, non si sono comunque arresi. The Hot Zone sceglie di percorrere una via diversa, più facile e, per questo, dimenticabile, quella di una riproduzione posticcia di un sentimento ansioso disancorato, però, alle radici dalla tragedia ineffabile del non senso.
The Hot Zone: un prodotto tradizionale che pone la questione della precarietà della vita umana in termini solo politici
Prodotto tradizionale, aderente a stilemi estetici e narrativi oramai superati, incardinato su un personaggio femminile forte e coraggioso su cui incombe l’ombra del cliché, The Hot Zone si sottrae al confronto con la profondità e, nella sua estrema orizzontalità, informa senza intrattenere e senza ambire alla compenetrazione fra particolare e universale. Per questo, si presenta come espressione di un subgenere di medical thriller nel quale le esigenze del racconto drammatico fungono da cornice a quella che è e resta la priorità dell’opera: rievocare, ricostruire, documentare. L’unica riflessione proposta sembra essere quella relativa alla facilità con cui un virus può propagarsi da una zona a un’altra del globo e la questione al cuore della serie viene, dunque, posta in termini sempre politici, senza inoltrarsi mai nei territori dell’esistenziale.
Nonostante la produzione non particolarmente illuminata e il risultato sbiadito, The Hot Zone sembra confermare, tuttavia, come il filone ‘virologico’ si configuri, a livello internazionale, come uno degli ambiti più fertili della drammaturgia televisiva contemporanea: in Italia, in serie come, ad esempio, 1992, si affronta, pur marginalmente, il tema dell’impatto dell’AIDS non solo nella vita di un individuo, ma in una intera società destabilizzata da un nemico nuovo e imprevisto che una certa retorica ha voluto pretestuosamente associare alla marginalità, alla deviazione, alla depravazione. Una narrazione televisiva seriale di qualità che si confronti, de-retoricizzandolo, con quello spettro insieme remoto e prossimo potrebbe, oggi più che mai, avere qualcosa di nuovo da dire. The Hot Zone fallisce alla prova dell’originalità, ma indovina senz’altro la strada.