Tiger King: recensione della docuserie Netflix di Eric Goode
La recensione della docuserie originale Netflix Tiger King, girata e prodotta dall'ambientalista e filantropo Eric Goode, sulla vicenda personale di Joe Exotic.
Benvenuti nel fantastico mondo di Tiger King, il nuovo fenomeno pop americano schizzato al primo posto delle visualizzazioni dei prodotti Netflix dall’oggi al domani (Rotten Tomatoes docet), complice la situazione di confinamento in cui gran parte del mondo versa, tutti relegati davanti alla tv nonostante le varie buone intenzioni, e l’interessamento pressante di tante star come Kim Kardashian, Alexandra Daddario, Cardi B e compagnia cantante.
Questi due fattori dovrebbe però togliere meriti alla serie riguardo la popolarità raggiunta? Assolutamente no.
La storia in cui Eric Goode è più o meno casualmente inciampato nel 2014, mentre si trovava sul retro di un negozio di animali rari ed era intento a girare un documentario sul traffico dei rettili negli Stati Uniti, si è rivelata nel corso del tempo essere una miniera d’oro, non solo per i suoi assurdi protagonisti e le incredibili vicende a cui sono legati, ma per riuscire a tratteggiare uno dei migliori spaccati dell’America dell’Era Trump (iniziata già prima della sua elezione) e, in generale, uno dei più accurati e significativi degli anni 2000.
7 puntate, 45 minuti circa l’una, un prodotto tra il true crime, l’inchiesta animalista, l’affresco american trash e il trattato antropologico, pensato e girato in maniera esemplare, confezionato ancora meglio, questo è Tiger King. E siamo solo all’inizio.
The Tiger King
Da quando vide un esemplare rarissimo di leopardo delle nevi chiuso in una gabbia, nella mente di Eric Goode ha cominciato a prendere forma l’idea di dover trovare un modo per riuscire ad entrare nel mondo del commercio dei grandi felini, una delle realtà in escalation in America negli ultimi anni, e per farlo ha cominciato ad indagare sui più grandi zoo privati di animali esotici nel Paese. Ancora non era a conoscenza di essersi messo sul sentiero per i cancelli del G. W. Zoo, in Oklahoma, da 16 anni il regno di Joseph Schreibvogel, dopo Joe Allen Maldonado-Passage, ma noto a tutti come Joe Exotic.
Amante viscerale delle tigri, capo megalomane, ossigenato, glitterato e tatuato di una colorita famiglia costituita di tossicodipendenti e senza tetto, tra cui una tuttofare senza un braccio, un capo guardiano senza gambe e due mariti (poi tre), Joe ha una sua televisione online personale, combatte le sue battaglie a suon di videoclip musicali da lui prodotti e in cui canta (anche se la voce non è proprio la sua), è protagonista del suo stesso reality show ed è visto da tutti come un “gay fanatico, completamente pazzo, armato e drogato“, non male vero? Non è finita qui.
L’idolo di Joe è tale “Doc” Antle, mistico proprietario di uno zoo privato di animali esotici in South Carolina, chiamato (probabilmente per sua richiesta) Bhagavan, termine utilizzato per indicare una sorta di Messia dotato dello Shaktipat, la capacità di elevare i comuni mortali con un semplice tocco. Egli guida una setta composta dalle sue 3 (o 4) mogli e aperta ad altre giovani donne (preferibilmente vergini) o chiunque sia pronto a legarsi e a vivere con lui per sempre. Ah, e va in giro cavalcando un elefante. Accanto a lui può ormai comparire qualsivoglia figura, non stupisce neanche più un ex re del narcotraffico. Naturalmente amano tutti gli animali.
Ma la cosa più importante nella vita di Joe è la guerra contro l’animalista Carole Baskin, fondatrice del Big Cat Rescue, il “santuario dei grandi felini d’America”, una figura quantomeno contraddittoria, il cui passato, neanche a dirlo, è segnato dalla misteriosa scomparsa del marito milionario. Questo conflitto costituisce il filo narrativo della serie, per portarlo avanti il nostro Exotic passerà dalle minacce di morte via web con pistola e bambole gonfiabili ad avvalersi dell’alleanza di Padrini in miniatura, loschi (e grassi) figuri proprietari di strip club e pretestuosi assassini, fino all’accusa di aver commissionato l’omicidio della sua biondissima dirimpettaia, motivo per il quale finirà in gabbia, come i suoi fidati compagni di vita. Poetico, non trovate? Ed è tutto vero.
Big Cats War
Siamo nella terra delle libertà e operiamo nei pressi di una tragica bolla legislativa dovuta alla mancanza di una regolamentazione reale e severa riguardante il trattamento del traffico illegale di animali, un’ecosistema fertile per chi vuole vivere il Sogno Americano. Perché di questo parla Tiger King, solo che non lo fa partendo dalla versione ripulita delle aule di giustizia o dei saloni della politica, ma da quella bifolca della strada, delle paludi e delle lande sconfinate degli Stati Uniti, dove tutto è possibile per chi ha il coraggio di prenderselo.
I primi battiti del documentario danzano sul significato della figura della tigre per chi ne è un amante, sentenziando che il presunto attaccamento all’animale è fortemente condizionato dal bisogno di identificazione con quello che rappresenta, “alle persone piace farsi fotografare con le tigri non per gli animali, ma perché desiderosi di quello che la loro presenza dona alla propria immagine” (semicit.). Sarà per questo che gli attori protagonisti di questo mondo vengono da passati burrascosi, vittime di un sistema (sociale quindi familiare) fondamentalista e puritano che prima li punisce per la loro natura e poi dona un mondo in cui è possibile accedere ad un ventaglio potenzialmente illimitato di risorse, anche se non si ha mezzi psicologici per gestirle.
Joe è prigioniero, un po’ come lo sono i suoi animali, del suo disfunzionale processo di delirante e autodistruttiva megalomania, che lo porterà addirittura a candidarsi per la Casa Bianca e poi come governatore, salvo, infine, posare con una corona in testa e autoproclamarsi re delle tigre, in cui la sua ossessione per Carole Baskin è solo un pretesto, ma tanto basterà per condurlo alla rovina.
Gli Stati Uniti non sono mai andati troppo lontano dal famoso Far West di cui tanto abbiamo visto, la loro è una cultura rinchiusa in una gabbia di libertà, e per questo di eccessi ed estremizzazioni, in cui si è lasciati soli, orfani di un razionale sistema di valori a misura d’uomo (le recentissime code per l’acquisto delle armi in seguito all’emergenza coronavirus ce lo dice una volta di più) e buttati in un carnaio volto solo all’adempimento utopico degli insegnamenti dei Padri Pellegrini, con la sola possibilità di diventare l’ennesima vittima di se stessi. Di questo Joe costituisce un archetipo quasi perfetto e il successo che ha raccolto la sua storia testimonia come il popolo americano abbia bisogno di guardarsi allo specchio, per prendere coscienza o anche solo per deridere, o come spesso accade, di parodiare, di spettacolarizzare o di trasformare in una serie tv, magari con Edward Norton (storia vera) e poi dargli una morale. Goode lo ha già fatto.