Toy Boy: recensione della serie Netflix con Jesùs Mosquera
La recensione della serie Netflix spagnola tra spogliarellisti, omicidi e malavita.
Hugo si esibisce tutti i giorni insieme a Ivàn, Jairo e Germàn come spogliarellista in vari locali e feste private. Il ragazzo è anche sentimentalmente coinvolto con Macarena Medina, discendente della famiglia più potente e ricca di Marbella. Al termine di una festa a base di sesso e droga, Hugo si sveglia accanto al corpo decapitato del marito di Macarena: dopo aver scontato sette anni di carcere decisi da un processo ingiusto e sommario, Triana, una giovane avvocatessa, riesce a tirarlo fuori di prigione e a dimostrare la sua innocenza.
Il mistero su quanto successo quasi un decennio fa, a questo punto, è solo all’inizio e gli intrighi di potere e malavita che coinvolgono tutte le personalità della cittadina della Costa del Sol non tardano a trapelare con i loro tentacoli. Per Triana, Hugo e compagni divisi tra difficoltà economiche e sentimentali i problemi sono solo iniziati.
Con queste premesse Toy Boy offre un panorama di corpi perfetti e seducenti al centro della scena, quella del gruppo di ballerini da cui è tratto il nome della serie prodotta da Atresmedia e Antena 3 e arrivata su Netflix per la distribuzione mondiale. I 13 episodi che compongono la prima (e per ora unica) stagione si snodano lungo un lento groviglio di trame malavitose e misteri irrisolti da quasi dieci anni. Nel corso delle puntate non smettono infatti mai di comparire e guadagnare il centro della scena nuovi personaggi, ognuno dei quali apporta inaspettati cambiamenti all’andamento del caso investigativo e rivelando un sotterfugio ancora più subdolo rispetto a quelli sinora presentati.
In questo contesto, Toy Boy si configura come una continua alternanza tra i toni sfacciati e tamarri del sentimentalismo più ingenuo e della carnalità lineare e una trama poliziesca che invece potrebbe reggersi sulle sue gambe senza troppe variazioni sul tema. Da un lato quindi troviamo la ritrovata innocenza di Jairo, l’omosessualità di Andrea appena accennata, la “semplice normalità” di Triana a cui Hugo quasi fatica ad adattarsi, le continue e irresistibili avances di Macarena (che non provocano alcun tremore nella rivale in amore, non si capisce come).
Dall’altro lato ci sono i Medina e i Rojas, il potere delle ricche famiglie locali, le strategie aziendali per accaparrarsi gli appalti, il traffico di droga boliviano, la pedofilia taciuta e poi punita degli uomini potenti e perversi, finti ricatti e finte morti. Non solo. Intorno ai protagonisti iniziano a comparire anche una miriade di altri personaggi: la commissaria venuta da Madrid, Borja Medina, l’inetto ispettore Zapata, Mateo Zapata, Carmen e Maria Teresa Benigna; ognuno di questi individui cerca (riuscendo nell’intento) di guadagnarsi il centro del palco come fulcro e snodo narrativo, dichiarandosi detentori di segreti decisivi alla continuazione delle scoperte.
È evidente quanta carne al fuoco ci sia in una serie come Toy Boy che però non si dimostra all’altezza di domare con la dovuta maestria tutti questi aspetti. Da un punto di vista emotivo la produzione regge abbastanza e, di fatto, alla fine della serie ci si ritrova a tirare il fiato un po’ scossi e un po’ sollevati dalla centrifuga di eventi presentati.
Quello che però lascia l’amaro in bocca è il fatto che la trama è troppo complessa per basi recitative e di alternanza di sceneggiatura che non offrono abbastanza solidità, con il risultato che lo spettatore si ritrova sempre a inseguire, anticipare e riconsiderare la posizione di tutti, senza però avere un supporto interpretativo e di scrittura adeguato. Nota a latere: la sigla cerca, con un discreto risultato, di ripetere il successo di quella di La casa di carta.