True Detective – Stagione 3: recensione del finale di stagione
La terza stagione della serie cult ideata da Nic Pizzolatto ci riporta alle atmosfere della prima indimenticabile indagine dei detective Cohle e Hart. Con alcune sostanziali differenze.
Non deve essere stato facile per Nic Pizzolatto, creatore della prima folgorante stagione di True Detective, capire che strada intraprendere per dare nuova linfa ad una serie data per morta e sepolta. Nel 2015, per cavalcare l’onda del successo di quel cult nato quasi per caso e senza particolari aspettative, figlio di un attimo, si decise infatti di proporre qualcosa di diverso: un dramma corale, che cercava di risolvere alcune situazioni critiche (il presunto sessismo) tenendo fede allo spirito esoterico e misterioso che era diventato marchio di fabbrica del prodotto.
In estrema sintesi, un flop, che scontentò fan e opinione pubblica andando ben oltre l’oggettivo giudizio di merito (c’è chi, a distanza di quattro anni, ha rivalutato quelle otto puntate con protagonisti Colin Farrell, Rachel McAdams e Vince Vaughn, spingendosi a definirle il vero capolavoro di Pizzolatto). Per risalire la china si è deciso – per dirla con il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa – di “cambiare tutto, affinchè tutto resti uguale”: in True Detective 3 si torna all’incontro-scontro di due detective tormentati, alle prese con un caso di coscienza che mescola letteratura e psichiatria. Con un occhio anche all’inquietudine propria dei lavori di David Lynch.
True Detective: universi condivisi, consequenziali e sovrapponibili
Il coinvolgimento del pubblico si gioca anzitutto sul terreno dell’empatia: i detective Rust Cohle e Marty Hart, per quanto profondamente diversi fra loro (e anzi, proprio in virtù di questo) creavano nella first season una forte connessione “intellettuale” con lo spettatore, nonostante alcune loro bassezze e nonostante la loro psicologia non fosse di facilissimo inquadramento. Lo stesso transfert viene tentato da True Detective 3: al centro dell’attenzione ci sono Wayne Hays (il gigantesco Mahershala Ali, trionfatore agli Oscar con Green Book) e Roland West (Stephen Dorff, già visto in World Trade Center di Oliver Stone e in Somewhere di Sofia Coppola). Due caratteri difficili, che si muovono all’interno di una comunità chiusa e retrograda per risolvere il caso della sparizione dei fratelli Purcell (10 e 12 anni), scomparsi nel nulla nel pomeriggio di un giorno qualsiasi.
Mahershala Ali: carriera e vita privata dell’attore di True Detective
Il caso gravita, progressivamente, attorno alla tratta di minori da parte di un giro di pedofili, ma ricostruire gli eventi non è facile: la narrazione si frammenta in tre diversi piani temporali (1980, 1990 e 2015), corrispondenti ai ricordi confusi di Hays, che oggi soffre di amnesia e di una malattia degenerativa che ne minaccia la lucidità. Sembra quasi, ad un centro punto, che i personaggi del presente possano influenzare gli accadimenti del passato, rendendo così i tre diversi momenti dell’indagine non consequenziali ma sovrapponibili l’uno all’altro. Un espediente affascinante, che apre le porte alla suggestione dello shared universe e restituisce bene l’idea visiva della vertigine mentale, rendendo inattendibili se non addirittura falsificatori determinati ricordi.
True Detective: il seme del dubbio
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Risulta tuttavia evidente come, col passare degli episodi, ci si concentri quasi esclusivamente sul carattere di Hays, lasciando troppo in disparte la personalità di West e recuperandola solo in extremis nelle ultime due risolutive puntate. Il lento evolversi delle indagini porta a diverse false piste e al tratteggio di personaggi ambigui che spesso vengono lasciati in sospeso (su tutti Lucy Purcell, la mamma dei due fratellini, ma occhio ad Amelia Reardon, compagna di vita di Hays e autrice di un libro sul caso dei ragazzini).
Coerentemente con lo spirito della serie, non ci si può fidare di nessuno: il dubbio porta a rivalutare situazioni apparentemente innocue e, all’opposto, a rimpiangere il tempo perso in colpi di scena che non hanno portato a nulla.
Ci si può, ad ogni buon conto, abbandonare all’evidenza dei fatti: il caso è stato insabbiato per ben due volte (1980 e 1990), restando irrisolto e soprattutto sconquassando l’esistenza dei due personaggi principali, rimasti ancorati – ognuno a suo modo – ad un fallimento dal quale non sono stati più in grado di riprendersi. Questa sensazione di sospensione si fa in particolar modo palpabile negli episodi di metà stagione, quelli che richiedono il maggior sforzo e la maggior pazienza da parte di chi guarda: l’introspezione si fa chiave di volta dell’intreccio, ma qua e là non si può fare a meno di constatare come la tensione latiti e come l’enigma perda di consistenza.
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Senza entrare nei dettagli, il season finale riesce nell’arduo compito di sparigliare ulteriormente le carte e dare una degna e soddisfacente risoluzione degli eventi. Nic Pizzolatto (coadiuvato in fase di sceneggiatura da David Milch e Graham Gordy) incastra diversi finali e sottofinali, rendendo piuttosto esplicito come la conclusione dell’investigazione sia – o avrebbe dovuto essere – l’ultima cosa a cui guardare, una falsa pista al pari di quelle disseminate nella storia. La lunga e meticolosa spiegazione fornita da uno dei personaggi ricorrenti quasi delude le aspettative, non tanto per il suo contenuto quanto per il modo in cui prende forma.
Il colpo di coda è semmai negli ultimi restanti 20 minuti, in cui si scopre un ultimo ulteriore dettaglio e in cui più di ogni altra cosa viene rimesso al centro il cuore pulsante dello script, ciò che rende interessante e importante a conti fatti questa terza stagione: lo sgretolamento dei ricordi e del tempo, che sfugge e si fa al contempo peggior nemico e miglior alleato, quando l’unico modo per darsi pace e sfuggire ai propri inferni è dimenticare. Tutto quello che abbiamo fatto o faremo, continueremo a farlo all’infinito: il giovane Hays in Vietnam negli anni ’70 ha bisogno di perdersi e cercare un senso; e lo stesso accade negli anni ’80 della sua affermazione, nei ’90 della sua maturità e nei 2000 della sua vecchiaia. Perché il tempo è un cerchio piatto, un flat circle da cui – in modo diverso e identico alla prima stagione – non si può e non si vuole sfuggire.